venerdì 30 marzo 2012

Varanasi

Un altro giro di giostra
Dall’alto della terrazza del Ganges View, guardavo ogni mattina il sole sorgere dall’altra riva del Gange e sulla mia riva la folla di fedeli chinarsi verso l’acqua, prenderne una manciata, alzare le mani al cielo e offrire ai primi raggi le gocce che cadevano scintillando.
Uno stranissimo spettacolo: su questa sponda del fiume per alcuni chilometri decine di migliaia di persone rivolte all’acqua, ai piedi delle scalinate, dei templi, delle case, e dei palazzi, in mezzo ai canti, le preghiere, e i suoni di campanelle;  sull’altra sponda nessuno, niente, solo un velo di misteriosa caligine sulla terra completamente deserta. Il pieno e il vuoto, la luce e l’ombra, il suono ed il silenzio: un’altra grande metafora dei due opposti che fanno Uno, della Verità che è armonia di contrasti. Perché Benares è sacra ma solo ad Ovest. E solo chi muore sulla sponda occidentale del Gange, la sponda affollata, rumorosa e assolata, sulla sponda dove notte e giorno bruciano gli avidi fuochi delle pire, si salva dal rinascere. Sull’altra sponda non succede mai nulla, tranne l’approdare di qualche cadavere di bambino o di sadhu[1] che la corrente deposita sulla sabbia. Là niente esiste o diviene. Là la morte non è liberazione.
È così da quando l’uomo ricorda. Benares è la più antica città vivente e da quattromila anni milioni e milioni di indiani sono venuti qui a morire, certi di non dovere tornare a vivere. Perché quella sponda occidentale del Gange è l’unico posto sulla terra dove gli dei lo permettono. Per questo Benares, la città sacra, la città della morte, è fuori dal mondo, appartiene ad una diversa realtà, vive in una diversa dimensione.
A volte avevo davvero bisogno della protettiva distanza della terrazza per non perdermi e cercare di capire. Per noi occidentali è difficile identificare il sacro con lo squallore, lo sporco, il putridume. Ma quella indiana è anche la civiltà che ha come ideale di vita i mendicanti, dovevo ricordarmi, e anche io ero preso da quel sacro fervore di morte che non aveva in sé alcuna tristezza.
Succede che, osservando un dettaglio, si è colpiti dall’insieme in cui quel dettaglio è insignificante. Una mattina, quasi senza farci caso, seguii con lo sguardo una donna che, premurosa e diligente, annaffiava e accomodava una bella corona di fiori arancioni al collo di una piccola dea di pietra in riva al Gange, sotto la mia terrazza. Arrivò una capra nera e gliene portò via un boccone. Stava per farsene un altro, ma venne cacciata da una mucca che in un sol colpo ingurgitò tutta la bellezza e le preghiere che la donna stava ancora offrendo alla sua dea. Nessuno si ribellò e presto la donna, la capra e la vacca si allontanarono ognuna per la sua strada, avendo ognuna fatto la sua parte nell’immensa commedia-illusione di miliardi e miliardi di persone e animali, essere visibili e invisibili che in questo stesso momento in miliardi di diversi pianeti nell’eterno tempo dell’infinito universo continuavano a girare nella ruota dell’essere.
Angela, arrivando anni prima su quella terrazza, aveva detto:
«Da qui si vede il mondo come lo deve vedere Iddio…e si capisce che non possa occuparsi di tutto quello che succede»
È possibile che parte della nostra inquietudine di occidentali ci venga dal fatto che vogliamo invece occuparci di quel che succede nel modo ed anche cambiarlo? Che ci sia davvero una grande saggezza nel pensiero orientale secondo cui ciò che è fuori da noi è immutabile e che la sola speranza è cambiare dentro noi stessi?
Questo era anche il messaggio dell’Illuminato per il quale però il cambiare se stessi doveva esser frutto di uno sforzo, di «un lavoro diligente». La salvezza non veniva, secondo lui, semplicemente morendo a Benares. E non a caso era andato ad annunciarlo a Sarnath.
Camminando dal Gange View Hotel verso nord, lungo le scalinate che scendono al fiume, si incontrano due campi di cremazione dove il compito di disporre dei corpi, in pubblico, sotto gli occhi di tutti, non cessa mai. Passai ore ad osservare l’andirivieni dei morti e dei vivi, il continuo affaccendarsi attorno ai fuochi degli addetti ai lavori e dei parenti. Mi colpì che nessuno mai, piangeva. La morte era un fatto contro cui nessuno sembrava ribellarsi. E noi occidentali invece, abbiamo tanta difficoltà ad accettarla! Per noi la morte è sempre una sconfitta, qualcosa contro cui dobbiamo combattere con ogni mezzo e anche in extremis sperare magari in un «miracolo» che induca la natura a cambiare, almeno per una volta, le sue immutabili leggi.       
Una volta una donna si presento all’Illuminato con in braccio il suo bambino appena morto e gli chiese un miracolo, di ridargli la vita. Buddha disse che lo avrebbe fatto, ma a una condizione: che la donna gli portasse un pugno di risoi di una famiglia che non fosse mai stata visitata dalla morte. La donna corse via, andò di casa in casa, di villaggio in villaggio, ma dovunque si rivolse c’era stata un morto. La donna tornò da Buddha, rassegnata. Ma aveva capito e «Colui che è passato da qui» la consolò. Ora erano tutti e due sulla stessa strada.
E il corpo? A guardare quelli che sbrigativamente venivano mandati in fumo sulle pire pensavo a quanto noi ci identifichiamo col nostro corpo e a come ci è impossibile staccarcene. Persino le nostre speranze di immortalità e di resurrezione hanno a che fare col corpo. Noi non riusciamo come gli indù o l’Illuminato a vedere nel corpo uno strumento che, una volta usato, è da buttar via senza rimpianti.
Per le strade di Benares si incontrano in continuazione le processioni dirette ai campi di cremazione. Il cadavere, avvolto in un lenzuolo, la faccia scoperta al sole, è disteso su una barella di bambù portata a spalla da quattro uomini. Il corteo non ha niente di funereo, di lento, di strascicato. Al contrario. Avanza a passo di marcia, quasi correndo, senza tanto riguardo per il morto, che precario nella barella sobbalza e scuote la testa. Non c’è musica funebre che lo accompagna; solo il veloce, martellante grido di alcuni «Ram nama satya hey» solo il nome di Ram è verità e la risposta del coro che ribatte: «Satya hey, satya hey», verità, verità. E avanti, alla svelta verso la pira dove il primogenito del defunto che si è appena rasato la testa, appicca il fuoco, osserva le fiamme che divorano la legna e la carne e alla fine butta sulle ceneri una ciotola d’acqua sacra del Gange; poi, senza voltarsi, va a fare le abluzioni di purificazione e torna nella ruota del mondo.
Il funerale non è di suo padre ma del suo corpo, una materia ormai inutile, senza alcun valore di cui è necessario e facile sbarazzarsi.
A noi occidentali invece è naturale vedere il defunto nel suo corpo e fare di quel corpo l’oggetto del nostro dolore. Quando poi si tratta del nostro proprio corpo l’identificazione è ancora più grande. Per questo quell’andare in fumo ci fa paura e non ci basta la visione sufi del mio amato Rumi che scrive:

Sono già morto minerale e diventato pianta
Son morto pianta e mi sono elevato ad animale
Son morto animale e ora, eccomi uomo.
Perché aver paura?
Quando mai sono diventato di meno
Morendo?

Un giorno Shashank venne a sedersi accanto a me sulla terrazza. Mi aveva portato un libro su Benares che, disse, dovevo assolutamente leggere. Aveva ragione. Fra le tante belle storie su questa città fuori dal mondo, ci trovai anche un passo dei Brahmana, parte degli antichi testi sacri dell’India. Sono i versi in cui Indra, il dio protettore dei viaggiarori, incoraggia un giovane di nome Rohita a intraprendere una vita sulla strada:

Non c’è felicità per chi non viaggia Rohita!
A forza di stare nella società degli uomini,
Anche il migliore di loro si perde.
Mettiti in viaggio.
I piedi del viandante diventano fiori,
La sua anima cresce e dà frutti
E i suoi vizi son lavati via dalla fatica del viaggiare.
La sorte di chi sta fermo non si muove,
Dorme quando quello è nel sonno
E si alza quando quello si desta.
Allora vai viaggia, Rohita!

Ovviamente Indra aveva trovato un modo di parlare anche a me. Alcuni giorni dopo tornai a Delhi e da lì,avanti. Non ero pronto a fermarmi, tanto meno sotto un albero. In fondo ero sempre solo una spugna e i miei piedi pensavano ancora di poter diventare dei….fiori.

Tiziano Terzani
“Un altro giro di giostra”  Ed. Tea pagg. 201 – 205




[1]  Neonati e Sadhu non vengono cremati, ma lasciati alle acque.