venerdì 23 dicembre 2011

Jospeh Conrad - La follia di Almayer




“Vi fu un lieve sfregamento, poi il rumore secco come di legni urtati. Qualcuno stava approdando. Raccolse una bracciata di rami secchi e, senza staccare gli occhi dal varco, li tenne sopra la brace. Attese esitante. Qualcosa luccicò tra i cespugli; poi una bianca figura uscì dalle tenebre e parve nuotare verso di lui nella pallida luce lunare. Il suo cuore sobbalzò e cessò di battere, poi continuò a scuoterlo tutto, pulsando furiosamente. Lasciò cadere i rami sulla brace, ed ebbe l’impressione di gridare il nome di lei, di precipitar lesi incontro; ma in realtà, non emise alcun suono, né si spostò di un pollice; rimase muto e immobile come un bronzo cesellato, nel chiarore lunare che scivolava sulle sue spalle nude. E mentre stava così immobile, trattenendo il respiro, come reso insensibile dall’intensità della gioia, lei gli si avvicinò con passo spedito, risoluto e d’un tratto, come chi stava per lanciarsi da una grande altezza, gli gettò improvvisamente le braccia al collo. Una fiammella azzurrognola strisciò tra i rami secchi, e il crepitio del fuoco ravvivato fu il sole rumore mentre s’incontravano, nella muta emozione del ritrovarsi; poi la legna avvampò tutt’a un tratto, e un’altra fiammata balzò su sfavillante, e a quella luce si guardarono l’un l’altra negli occhi.
Nessuno dei due parlò. Lui stava ricuperando i sensi in un lieve tremore che gli corse lungo il corpo irrigidito e indugiò sulle labbra frementi. Lei rovesciò il capo e fissò gli occhi nei suoi, in uno di quei lunghi sguardi che sono  l’arma più terribile della donna; uno sguardo più sconvolgente del contatto più intimo, e più pericoloso d’una pugnalata, poiché strappa l’anima dal corpo, lasciando questo impotente, in balia delle tempeste delle passioni e dei desideri; uno sguardo che avvolge tutto il corpo, che penetra nei suoi più segreti recessi, portando una terribile sconfitta nell’esaltazione della compiuta conquista. Ha lo stesso significato per l’uomo delle foreste e del mare come per l’uomo che batte i sentieri del più pericoloso deserto di case e vie cittadine. Coloro che hanno sentito nel petto la terribile esultanza che suscita un tale sguardo, diventano mere cose dell’oggi, che è il paradiso; si scordano di ieri, che fu dolore; non si curano del domani, che può essere perdizione. Vorrebbero vivere sempre in quello sguardo. È lo sguardo con cui la donna s’arrende.
Egli comprese e, come a un tratto liberato da invisibili legami, le cadde ai piedi con un grido di gioia, le abbracciò le ginocchia, immerse il capo nelle pieghe della sua gonna, mormorando sconnesse parole di gratitudine e d’amore. Mai s’era sentito tanto orgoglioso come in quel momento, ai piedi di quella donna che apparteneva in parte ai suoi nemici. Le dita di lei giocarono coi capelli di lui in una distratta carezza, mentre pensava assorta. La cosa era fatta. Sua madre aveva ragione. Era già suo schiavo. Guardando dall’alto quell’uomo genuflesso, provò una grande pietosa tenerezza per colui che era solita chiamare, anche nei suoi pensieri, il signore della vita. Alzò gli occhi e guardò con mestizia il cielo nudo, sotto il quale s’allungava il sentiero della loro esistenza, al sua e quella dell’uomo ai suoi piedi. Non glielo aveva detto egli stesso che per lui era la luce della vita? Sarebbe stata la sua luce e la sua saggezza; la sua grandezza e la sua forza; e soprattutto, nascosta a ogni occhio umano, sarebbe stata la sua sola eterna debolezza. Una vera donna! Nella sublime vanità del proprio sesso, già pensava di plasmare un dio con la creta prostrata ai suoi piedi. Un dio che gli altri avrebbero adorato.   Gioì di vederlo così come era ora, di sentirlo fremere al più leggero contatto delle sue dita. E mentre i suoi occhi guardavano tristemente le stelle verso sud, un tenue sorriso parve balenarle sulle labbra immobili. Difficile dirlo nella luce incerta di un falò. Avrebbe potuto essere un sorriso di trionfo, di consapevole dominio o di pietosa tenerezza, o, forse, d’amore.
Gli parlò sottovoce, ed egli si rialzò, cingendola con  un braccio nella tranquilla sicurezza del possesso; lei posò il capo sulla spalla di lui, con un senso di sfida per tutto il mondo nella capace protezione di quel braccio. Era suo, con tutte le sue doti ed i suoi difetti. La sua forza, il suo coraggio, la sua audacia, la sua semplice saggezza e la sua astuzia di selvaggio, tutto era suo. Mentre passavano dalla luce rossastra del fuoco nell’argentea luminosità della radura, egli chinò il capo sul volto di lei, ed ella scorse nei suoi occhi la sognante esaltazione della sconfinata felicità, al contatto della esile persona stretta al suo fianco. Al ritmo uguale dei loro corpi attraversarono la luce in direzione delle ombre della foresta che, immobili e solenni, sembravano fare scudo alla loro felicità. Le loro forme si confusero insieme nel gioco d’ombre e di luci, ai piedi dei grandi alberi, mentre il mormorio delle tenere parole indugiava nella radura deserta, s’affievoliva e si spegneva. Un sospiro come d’immensa tristezza passò sulla terra nell’ultimo anelito della brezza morente, e nel profondo silenzio che seguì la terra e il cielo ammutolirono a un tratto nella triste contemplazione dell’amore umano e dell’umana cecità.
Ritornarono lentamente presso il fuoco, le improvvisò un sedile con rami secchi e, gettandosi ai suoi piedi, adagiò il capo nel suo grembo, abbandonandosi alla trasognata delizia di quei brevi istanti. Le loro voci si alzavano e si abbassavano tenere o animate, parlando del loro amore, del loro avvenire. Lei, con qualche abile parola pronunciata di tanto in tanto, guidava i suoi pensieri; e lui lasciava prorompere la propria felicità in un torrente di parole dolci e appassionate, gravi o minacciose, a seconda dell’atmosfera da lei evocata. Le parlò della sua isola, dove le tetre foreste e i fiumi fangosi erano ancora da esplorare. Le parlò dei suoi campi a terrazza, del mormorio dei limpidi ruscelli che scendevano lungo le falde di grandi montagne, portando vita alla terra e gioia a chi la coltivava. Le parlò anche di una vetta solitaria: si ergeva oltre la cintura d’alberi e conosceva tutti i segreti delle nuvole transitanti, ed era dimora del misterioso spirito della sua razza, angelo custode della sua casa. Parlò di vasti orizzonti spazzati da venti impetuosi che ruggivano alti sulle vette di montagne di fuoco. Parlò dei suoi antenati che secoli prima avevano conquistato l’isola di cui sarebbe stato il futuro sovrano e poi, mentre lei, interessata, portava il viso sempre più vicino al suo, si sentì, sfiorando lievemente le folte trecce, tutto a un tratto spinto a parlarle del mare che tanto amava; e le parlò della voce incessante, che da bambino aveva ascoltata, meravigliandosi del suo significato recondito che ancora nessun esser vivente aveva penetrato; del suo sfavillio affascinante; delle sue inutili furie capricciose; della sua superficie mutevole e sempre attraente, e dei suoi abissi, eternamente eguali, gelidi e crudeli, e pieni della saggezza di tante vite distrutte. Le disse come il mare, col suo fascino, si rendeva schiavi gli uomini per tutta la vita, e poi, indifferente alla loro devozione, se li ingoiava, furioso, del loro terrore davanti a quel mistero ch’esso non rivelava mai, nemmeno a quelli che più lo amavano. Mentre parlava, il capo di Nina s’era andato chinando, e i loro visi quasi si toccavano. La chioma di lei gli era sugli occhi, l’alito sulla fronte e le braccia intorno al corpo. Non potevano essere più vicini, eppure lui intuì, più che non comprendesse, il senso delle ultime parole che, dopo un attimo d’esitazione, uscirono in un bisbiglio che si spense impercettibile in un profondo e significativo silenzio: “il mare Nina, è come un cuore di donna”.
Lei gli chiuse le labbra con un bacio improvviso, e rispose con voce ferma:
“ma per l’uomo che non conosce paura, il mare è sempre fedele, o signore della mia vita”.

La follia di Almayer
                                                                                                                                                                                    (Joseph Conrad)

mercoledì 14 dicembre 2011

La linea d'ombra

Si inizia da un libro e da una splendida locanda, si prosegue lungo le follie di un capitano di nome Almayer, si segue un' invisibile linea d'ombra e si giunge ad una canzone e ad un coinvolgente sorriso come terapia per l'anima.
Le coincidenze non esistono.


è una fissazione lo so, ma giuro non dipende da me.

lunedì 12 dicembre 2011

5. Hsü – L’Attesa (il Nutrimento)



5. Hsü – L’Attesa (il Nutrimento)




“Il segno mostra le nuvole nel cielo, dispensatrici della pioggia che allieta tutto il mondo vegetale e fornisce all’umanità cibo e bevanda. Questa pioggia verrà a suo tempo. Non si può costringerla  a scendere, bisogna attenderla.”

“Forza davanti a pericolo non agisce precipitosamente ma sa attendere, mentre debolezza davanti a pericolo si agita e non ha la pazienza di attendere.”


LA SENTENZA

L’attesa.
Se sei verace hai luce e riuscita.
Perseveranza reca salute.
Propizio è attraversare la grande acqua


“L’attesa non è un vano sperare. Essa ha la certezza interiore di raggiungere la meta. Unicamente questa certezza interiore dà la luce che sola conduce alla riuscita. Ciò porta alla perseveranza che reca salute e conferisce la forza per attraversare la grande acqua.
Un pericolo ci sta dinanzi e bisogna superarlo. Debolezza ed impazienza non possono far nulla. Solo chi è forte potrà affrontare il proprio destino, poiché egli è capace di persistere nell’attesa grazie alla sua sicurezza interiore. Questa forza si manifesta in una sincerità inesorabile.
Solo se si sanno vedere le cose come sono, guardandole in faccia, senza inganni e illusioni, dagli avvenimenti nasce una luce che indica la via per riuscire. A ciò deve seguire un’azione risoluta e perseverante; poiché soltanto andando decisi incontro al destino si può venirne a capo. Allora è possibile attraversare la grande acqua, cioè prendere la decisione e superare il pericolo.”

L’IMMAGINE


Nubi salgono nel cielo: l’immagine dell’attesa.
Così il nobile mangia e beve, ed è lieto e di buon
Umore.

“Quando le nubi salgono nel cielo è indizio di pioggia. Non si può fare altro che attenderne la caduta. Così avviene anche nella vita quando un destino si prepara. Fintanto che il momento non è ancora maturo non bisogna darsi pensiero né voler plasmare il futuro intervenendo e affaccendandosi; si deve invece accumulare tranquillamente forza per il corpo, mangiando  e bevendo, e per lo spirito, stando sereni e di buon umore. Il destino giunge spontaneo, da sé, e allora si è pronti”.
                                                                                                                                             (I Ching)   







sabato 3 dicembre 2011

Hemingway e le ostriche

Diciamoci la verità senza falsa modestia, non son mai stato bravo a scrivere pur essendo rimasto sempre affascinato dal mondo della scrittura e dalla sapiente arte della descrizione in generale. Fino a qualche anno fa, ad esser sinceri era il secondo anno delle medie, trovarmi di fronte ad un foglio bianco a strisce orizzontali (all’epoca i temi o compiti in classe,venivano svolti su i vecchi fogli protocollo alcuni dei quali recavano impresso in alto a destra un timbro che riproduceva il simbolo della moneta da 50 lire) e dover iniziare a macchiarlo con la fantasia delle mie parole, rappresentava un blocco, un trauma emotivo che ingenerava grande sofferenza fino a trasformarsi in vero e proprio panico. Trovo che scrivere sia qualcosa di estremamente intimo e personale, un po’ come spogliarsi difronte al partner per la prima volta. Era proprio in quei momenti che  - oltre ad una reale incapacità - venivo spesso assalito da una paura, una forma di rifiuto che imprigionava i miei pensieri e impediva loro di trasformarsi in parole. Un po’ come quando si è all’ippodromo, tutti i cavalli son pronti ed allineati dietro il cancello, scalpitano e fremono per uscire, ed ecco che al momento del via (la lettura della traccia), per tutti i Ribot allineati sulla linea di partenza, si aprono le anguste gabbie d’acciaio e via al galoppo. Al contrario, all’apertura delle gabbie il mio splendido e lucente Bucefalo rimane immobile e non ne vuol sapere di venir fuori, preferendo guardarsi attorno e brucare l’erba. Morale della favola, la corsa finisce ed il risultato è una splendido foglio bianco issato in senso di resa verso la scrittura e i suoi intricati meccanismi.  A seguito dell’ennesima umiliazione, decisi di affrontare il problema e superare quella incontrollabile fobia. Si perché, volenti o nolenti occorre lottare sempre per sconfiggere le proprie paure o almeno provarci. L’occasione fu la descrizione di un limone. Si, si proprio un limone, avete presente quel frutto giallo, tipico delle regioni del sud Italia, Calabria, Sicilia e Campania in particolare, con la buccia un po’ lucida un po’ porosa. Una descrizione che mi aprì un mondo precedentemente sconosciuto. Leggere quella apparentemente banale descrizione equivaleva ad assaporare mediante una serie di parole, i succosi ma acri spicchi di quell’agrume come se lo avessi realmente tra le labbra. Quella descrizione rimase impressa nella mente e mi fece superare l’assurda graforagorafobia (nuovo termine da inserire in wikipedia), io piccolo puntino di inchiostro nero in mezzo ad un’immensa piazza bianca da attraversare con le parole.
Pochi anni dopo, i limoni si trasformarono in succulente ostriche la cui descrizione arrivò dalla lettura di un libro, tra i meno conosciuti del premio nobel per la letteratura Ernest Hemingway, dal titolo  “Festa Mobile”. La descrizione era questa “Mentre mangiavo le ostriche col loro forte sapore di mare e il loro leggero sapore metallico che il vino ghiacciato cancellava lasciando solo il sapore di mare e il tessuto succulento, e mentre bevevo da ogni valva il liquido freddo e lo annaffiavo col frizzante sapore del vino, perdevo quel senso di vuoto e cominciavo ad essere felice e a fare progetti”. Leggendola e rileggendo questa descrizione, pur non essendo un amante delle ostriche avevo il sapore dei molluschi tra le labbra e le bollicine del vino a solleticare il palato.  Quella sublime “fotografia”, rimasta impressa nella mia memoria a distanza di qualche anno divenne protagonista in un film drammatico con Nicolas Cage e Meg Ryan “City of Angels” in cui partendo proprio dalla fase di Hemingway (proprio quella delle ostriche, guarda caso, se esiste la casualità, ma ho seri dubbi) Seth il messaggero di Dio (Andy Garcia) invita  Maggie (nei panni di Meg Ryan) a descrivere il sapore di una pera, “come Hemingway”. Ancora una volta una sublime descrizione di qualcosa di apparentemente insignificante o semplicemente impossibile - probabilmente in quanto appartenente al mondo dei sensi e come tale non suscettibile di descrizione letteraria o cinematografica - in realtà si materializza in una perfetta sinfonia di parole che si susseguono come per magia in un ritmo quasi tangibile “dolce, succosa, morbida sulla lingua, granulosa come sabbia zuccherina che si scioglie in bocca



A distanza di diversi anni, proprio in questi giorni, alcune immagini di un fotografo spagnolo contemporaneo, Chema Madoz, risvegliano le medesime riflessioni. Le opere di Madoz, rigorosamente in bianco e nero, “Il bianco e nero situa l’immagine in una forma differente” descrivono in chiave surrealista i temi attuali lasciando libero l’osservatore nell’interpretazione di ciò che esse realmente vogliono esprimere. L’arte concettuale consiste in quella straordinaria capacità di descrivere, (sempre la medesima parola che ricorre – descrizione- ) un concetto attraverso delle immagini. Un semplice bicchiere mezzo pieno e leggermente inclinato descrive il problema dell’acqua sul pianeta, 

un gong ove al posto del piatto è inserita una meravigliosa luna piena potrebbe descrivere le conseguenze di ciò che potrebbe accadere al pianeta terra a furia di rintocchi devastanti.


 Surrealismo appunto, descrizioni surrealistiche che si elevano a poesia romantica, come un dado foderato da uno spartito.


Sempre in questi giorni, infine, la sala di attesa di un ambulatorio medico ed in particolare, la lettura di un libro, prolungano questa particolare attenzione verso il mondo delle descrizioni. Il vaso di Pandora perde il suo coperchio lasciando fluttuare nei labirinti della mente umana la magia, la profondità e la poesia insite nelle descrizioni stesse. Come è possibile descrivere delle lampadine? Si si proprio banali e comunissime lampadine che ognuno di noi può osservare voltandosi in giro per casa. Chiedetelo ad un tale di nome Alessandro Baricco che nel suo ultimo lavoro “Mr. Gwyn” dedica oltre due pagine alle lampadine e alla poesia che quegli insignificanti oggetti quotidiani possono offrire:
“ (omissis….) E lì arrivava il momento delle lampadine. Il fatto è che non riusciva  a immaginarsi qualcosa che finiva bruscamente, allo scadere dell’ultima seduta, in modo burocratico ed impersonale. Era evidente che la fine di quel lavoro avrebbe dovuto avere un suo andamento elegante, perfino poetico, e possibilmente imprevedibile. Allora gli venne in mente la soluzione che aveva studiato per la luce – diciotto lampadine appese al soffitto, a distanze regolari, in bella geometria – e finì per immaginare che intorno al trentaduesimo giorno quelle lampadine iniziassero a spegnersi a una a una,  a caso, ma tutte in un lasso di tempo non inferiore a due giorni e non superiore a una settimana. Vide lo studio scivolare in un buio a chiazze, secondo uno schema aleatorio, e arrivò a fantasticare su come si sarebbero spostati, lui e il modello, per usare le ultime luci, o al contrario per rifugiarsi nel primo buio. Si vide distintamente alla luce fioca di un’ultima lampadina, dare tardivi ritocchi al ritratto. E poi accettare il buio. Al morire dell’ultimo filamento. È perfetto pensò. Per questo si ritrovò davanti al vecchietto, a Camden Town.
-          No, dovrebbero morire e basta, senza agonizzare e senza fare rumore, possibilmente.
Il vecchietto fece uno di quei gesti indecifrabili che fanno gli artigiani per vendicarsi del mondo. Poi spiegò che le lampadine non erano creature facili, risentivano di un sacco di variabili, e avevano spesso una loro forma di imprevedibile follia.
-          Di solito, aggiunse, il cliente a questo punto dice: Come le donne. Me la risparmi, per favore.
-          Come i bambini, disse Jasper Gwyn……..” .

Ed infine
(omissis……) - ci siamo dimenticati di parlare del tipo di luce, disse Jasper Gwyn quando già stava per uscirsene.
-          Come la vuole?
-          Infantile.
-          D’accordo….”.

Alla fine di tutte queste folli elucubrazioni ci si chiederà il senso di questo post, apparentemente insignificante. In realtà tutto ciò per ricordare ed esaltare la goccia di poesia che può scaturire da una descrizione, sia essa letteraria, cinematografica o semplicemente fotografica. Una bacchetta magica in mano a pochi eletti in grado di dare vita con la loro creatività ad oggetti inanimati.
In verità se proprio vogliamo essere sinceri il senso di questo post è semplicemente quello di mettere in guardia i poveri malcapitati lettori di tale post, delle conseguenze negative che una lunga attesa in un ambulatorio medico con un libro tra le mani è in grado di produrre sull’animo umano.
Musica Maestro.

lunedì 28 novembre 2011

Il Viaggio



Fitta nebbia che tutto avvolge
lentamente si dirada
sole pallido che adagio arrossisce
e filtra nel più cupo dei pomeriggi

viale di cipressi che invita a entrare
e ghiaia e sassi e polvere
foglie che volano e vagano   
calpestate da passi silenziosi

porte che si spalancano
brusio e quiete tra
immagini distanti
incenso e fiori colorati

superflue son le parole
silenzi che incrociano sguardi
mani che si schiudono in abbracci
focolare che riscalda l’anima
dolore e gioia fratelli siamesi che
urlano la loro unione dentro al cuore

luce che rischiara le colline
luce che riscalda gli alberi ingialliti
luce che allunga le ombre
luce che dona  pace
campane che salutano e lacrime amare
che scivolano via


Buon Viaggio Mario

sabato 26 novembre 2011

Oceano Mare

Un freddo ma assolato pomeriggio di un autunno lontano. Una pioggia di foglie che si stagliano dagli alberi ingialliti e si posano sui vetri umidi di una piccola mansarda, trasportate da un vento conosciuto. Un vento distante nel tempo che culla i pensieri  come onde inquiete riportandoli indietro. Su una battigia lontana eppure così presente, una bottiglia  galleggia alla deriva. Un messaggio che ritorna alla mente all’improvviso e le pagine di un libro che si aprono, lasciando libere le parole restituendo ricordi di viaggi lontani.
Posa la penna, piega il foglio, lo infila in una busta. Si alza, prende dal suo baule una scatola di mogano, solleva il coperchio, ci lascia cadere dentro la lettere, aperta e senza indirizzo. Nella scatola ci sono centinaia di buste uguali. Aperte senza indirizzo. Ha 38 anni, Bartleboom. Lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia, ma col tempo ha imparato a considerare la cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno, ormai da anni, prende la penna in mano e le scrive. Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma ha una vita da raccontare. E a chi, se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle
-          Ti aspettavo
Lei aprirà la scatola e lentamente, quando vorrà, leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di inchiostro blu si prenderà gli anni – i giorni, gli istanti – che quell’uomo, prima ancora di conoscerla già le aveva regalato. O forse, più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti a quella buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell’uomo
-          Tu sei matto.
E per sempre lo amerà  



venerdì 18 novembre 2011

Mario e la metafora dei tartufi


Correva l’anno 1994 e nelle sale cinematografiche italiane usciva “Il Postino” film di Michael Radford che narrava la storia di un esiliato Pablo Neruda, egregiamente interpretato da Philippe Noiret, e del giovane Mario, interpretato da un affascinato Massimo Troisi, un postino di Ischia incaricato di consegnare la posta al grande poeta cileno. Tra i due protagonisti nasce una profonda amicizia e in una delle scene più celebri del film, “Don” Pablo, alle prese con un problema idraulico e con la grottesca realtà italiana, insegna ad un innamorato Mario la profonda bellezza della poesia ed il misterioso significato delle metafore.
Dalla meravigliosa Ischia, ci trasferiamo in una luminosa stanza di un ospedale di provincia con una splendida vista di “Monettiana” memoria affacciata su una ridente collina interrotta da tre piccoli castagni a poca distanza l’uno dall’altro, un po’ spogli, immobili di fronte al giornaliero movimento delle loro ombre in una fredda giornata invernale. Anche il protagonista di questa storia, si chiama Mario ed è un appassionato contadino umbro di 72 anni, ex operaio addetto alla lavorazione e allo smaltimento della ghisa e dell’amianto (prima che tale materiale venisse dichiarato cancerogeno). Un bel giorno, di circa un anno fa, pur non avendo mai fumato in vita sua, Mario si vede diagnosticare un devastante tumore ai polmoni, conseguenza di quel lavoro svolto per tutta la vita senza alcun tipo di protezione. Le polvere sottili e cancerogene che aveva respirato per circa 30 anni della sua vita, avevano mostrato tutto il loro potenziale. Prima che accadesse tutto questo, Mario coltivava una sconfinata passione per la natura, e da buon contadino umbro, amava dedicarsi alla ricerca di tartufi, di cui aveva fatto un’arte. Addestrava i suoi amati cuccioli di bracco ungheresi che lo accompagnavano silenziosi e fedeli alla ricerca delle prelibate gemme nascoste nel sottosuolo dei Carpini neri, dei Lecci, dei Cerri e dei Tigli nei terreni collinari umbri.
La voce flebile e quasi impercettibile, mi fa cenno di aprire l’armadietto azzurro, ove son custoditi i pochi beni necessari per un “soggiorno obbligatorio in ospedale” e l’indice tremolante mi indica una busta di plastica verde, mi invita a portarla sul letto e a sedermi vicino a lui. Dalla busta emergono una serie di fotografie datate 8 dicembre 1989, “u’jornu da Madonna, si si u’jornu da Madonna” , come tiene a precisare. Le immagini che scorrono tra le mie mani ritraggono i suoi due fedeli compagni e la speciale giornata trascorsa alla ricerca e al successivo ritrovamento del prezioso tesoro. Due enormi tartufi neri purissimi, rispettivamente di 924 e 835 grammi. I suoi occhi improvvisamente si illuminano di una straordinaria luce vitale, è un grande motivo di orgoglio quel ritrovamento, quella giornata è impressa nella sua memoria e riporta in superficie ricordi felici che nonostante la particolare condizione in cui si trova lo risollevano e lo inorgogliscono. Mario segue con lo sguardo le fotografie che scorrono tra le mie mani. Una pausa di tanto in tanto, un colpo di tosse per ricordare ad entrambi che ci troviamo nella stanza n° 15 e non  a passeggio tra i sentieri di una delle verdeggianti colline che si intravedono dalla finestra.
«Che bello Mario, è gigante dev’essere stata una bellissima esperienza? »
«Certo – mi risponde orgoglioso con lo sguardo sempre più luminoso - Un Tartufo nero di queste dimensioni non è un ritrovamento che avviene tutti i giorni, un tartufo nero – mi ripete – non uno scorzone» -, una particolarità di tartufo nero poco pregiato, mi ripete entusiasta.
«E il più pregiato e conosciuto tartufo bianco, invece, dove si trova? »  – con quel suo meraviglioso sguardo che si illumina in continuazione, ti osserva e sembra ringraziarti per il tuo interessamento verso quel suo mondo così semplice eppure così complesso e con quel suo inconfondibile accento umbro inizia a spiegare e darmi prova, nonostante non ce ne fosse bisogno, della profonda conoscenza di questa sua passione infinita.
«No quello bianco è tipico dei pioppi, devi trovare i pioppi e qui in Umbria non è facile e poi avvelenano i cani ».
«In che senso Mario?, che vuol dire che avvelenano i cani? »
Tra una pausa e un’altra mi spiega che spesso, proprio per il valore che tale “gemma” preziosa riveste, alcune persone realizzano e disperdono nel sottobosco, terreno di caccia dei cani,  delle piccole polpette di cibo intrise di veleno per uccidere le povere bestioline che ignari vanno alla ricerca dei tartufi,  e scoraggiare, in tal modo, la gente a dedicarsi a tale ricerca. Il racconto prosegue, e nel silenzio delle pause necessarie a riprendere un po’ di fiato, interrotto dal rumore delle bollicine che emergono dalla macchina per l’ossigeno, Mario mi insegna i metodi di conservazione del tartufo, fase per fase, dall’estrazione alla prima pulitura, all’asciugatura, fino alla successiva preparazione e conservazione nel congelatore per futuri condimenti. È un piacere ascoltare questo anziano contadino, così cambiato rispetto alle foto viste poco prima e così apparentemente più anziano della reale età anagrafica, per colpa di una maledetta malattia che non lo abbandona e lo tortura da oltre un anno.  Ascoltare Mario, è un esempio reale di poesia bucolica, ascoltare i suoi racconti mi ha fatto ritornare indietro ad una scena del film e ad una citazione di Neruda
Quando la spieghi la poesia diventa banale,
meglio di ogni spiegazione è l’esperienza diretta
delle emozioni che può svelare la poesia ad un
animo predisposto a comprenderla

e come per magia nell’istante esatto in cui ripenso a questa citazione la magia si compie. Ed è merito della mia ultima domanda, la più banale forse.
«Mario ma che cosa sono i tartufi? Tuberi, vegetali, ortaggi, funghi? « – La risposta è di quelle da lasciar senza fiato, la magia di una poesia celata dietro il mistero di una metafora.
«Cosa sono i tartufi?» - risponde ripetendo la mia stessa domanda, in tono di riflessione. «Tu sai da dove derivano i diamanti?» - mi domanda
«Si! dal carbone vero? »
«Esatto, proprio il carbone, quello che la befana porta ai miei nipotini quando non fanno le brave, - accennando una timida risata – da un minerale così comune e grezzo si ricava la gemma più preziosa. »
«Mario ma cosa c’entrano i diamanti con i tartufi? »
«Aspetta, lasciami finire, non mi interrompere! » - riprendendo un attimo il respiro, mentre il rumore dell’ossigeno continua incessante, si leva la maschera che ha sul viso, per permettere che le parole vengano udite meglio
«Il tartufo non è altro che un tumore. Un tumore della terra! »
Quella parola, pronunciata senza timore in un momento come questo, con una flebo legata al braccio pieno di ematomi, il sangue che, ad ogni minimo sforzo, scivola giù incanalato in un grosso tubo bianco che dai polmoni termina in una sacca azzurra adagiata sul pavimento, mi lascia senza parole. In questi casi si ha sempre timore a pronunciare questa parola, una specie di modo per esorcizzare il male che ti affligge una forma di timore verso questo “mostro” annidato nel tuo corpo contro cui il tuo stesso organismo combatte una battaglia senza pari.
«Un tumore, proprio come il mio, un’escrescenza della terra che può “annidarsi” tra i 5 e i 60 centimetri di profondità nel sottosuolo boschivo. E così come dal carbone nascono i diamanti, da un tumore della terra viene fuori uno dei cibi più prelibati, gustosi e cari presenti sulle nostre tavole, conosciuti e degustati sin dagli antichi romani. Una splendida sorpresa che sboccia da un’apparente orrenda malattia della terra, eppure guarda, guarda ancora quella foto, osserva che gioiello è riuscito a venir fuori. »
Si ferma un attimo per prender fiato, inserisce di nuovo la maschera d’ossigeno e chiude per un attimo gli occhi. Un rivolo di sangue scorre lungo il tubo bianco, e riprende a parlare.
«Sono stato operato 14 volte fino ad oggi, q u a t t o r d i c i – mi ripete scandendo bene le parole – eppure son qui. Questi medici non son bravi come me a estirpare i tumori e trasformarli in tartufi.»
Sorride ancora una volta e con una voce ancor più flebile aggiunge:
«Nonostante questo io son ancora qui e son sicuro che prima o poi questo tumore bastardo si trasformerà in un bellissimo tartufo il più bello il più importante di tutta la mia vita. da una cosa negativa ne vien fuori sempre una positiva, io lo so, ne ho le prove».
Chiude gli occhi si scusa ma è stanco e mi fa cenno di voler riposare, un sorriso luminoso e sereno compare sul viso glabro e sciupato e si addormenta dolcemente. Ripongo le foto nell’armadietto e mi siedo al suo fianco accanto al letto osservando la luce di novembre che dipinge la collinetta di fronte di una patina dorata.  L’infermiera di turno mi fa cenno di uscire, non prima di voltarmi a osservare ancora una volta il mio eroe stanco.
«Auguri Mario».   



 


lunedì 19 settembre 2011

Il semplice mondo del giovane Holden

"....Certe cose dovrebbero restare come sono. Dovreste poterle mettere in una di quelle grandi bacheche di vetro e lasciarcele..."



mercoledì 14 settembre 2011

"Tutto serve a qualcosa"

"...Tutto quello che c'è a questo mondo serve a qualcosa, anche questo serve a qualcosa, anche questo sassettto. 
- E a cosa serve? -
- Serve...ma che ne so io..se lo sapessi sai chi sarei,  il padre eterno che sa tutto....quando nasci quando muori e chi può saperlo. no non lo so a cosa serve questo sasso ma  a qulacosa deve servire perchè se questo è inutile allora è intuile tutto, anche le stelle almeno credo, anche tu servi a qualcosa...."








martedì 13 settembre 2011

Claustrofòbia

Fragile catena per uscire dal tunnel, non e' cosa da tutti, non e' una strada agevole, occorre costanza, occorre tempo e capacità di osservazione.
Cammino accidentato,
cammino solitario,
lento passaggio da percorrere....
E ci son pesi invisibili grandi come macigni che gravano sulle spalle
e ci sono sogni che vengono infranti come i vetri di una finestra colorata,
ma non era quella la nostra finestra,
non era quello il nostro sogno!!

Pausa,

soffio,

attimo,

Un fischio nel silenzio, monti a cavallo e dinuovo la tua storia nello zaino.
Cowboy moderno, visiera leggermente calata sul viso e sigaretta tra le labbra, talloni che premono sui fianchi dell'animale e via, le redini tra le dita scorrono più lente.
Che la danza abbia inizio!!!
Clop, clop.. Un passo e poi un altro, spiaggia morbida sulla quale affondare e orme impresse da abbandonare, cancellate dalla marea che avanza
-la storia della vita-
vento   e acqua
I talloni premono più forte, il cuore accelera i battiti all'unisono, Via!!
Gabbiani che spiccano il volo, e schiuma e sassi  e vento che aumenta,
Libertà! 
I sensi reclamano spazio e tempo, luce e colori, aria ed acqua, sale e pelle, "Pilgrim" in lontananza, ormai lontana.
Gli stivali abbandonano le staffe, e le braccia lasciano le redini e di nuovo sabbia, occhi chiusi, silenzio!

Occhi aperti, brusio di sottofondo, legno, legno sotto i piedi, legno difronte gli occhi, legno intarsiato, legno di frassino, legno di noce...e c'è il superbo e l'ambizioso, la primadonna e il moschettiere, il giovane ed il saggio, l'arrivista e l'arrivato.
Una panacea dantesca, gironi concentrati in un'aula neanche troppo grande, claustrofòbia!!

aria,

aria,

aria

labbra socchiuse, soffio, bianco andaluso d'improvviso compare, osserva e invita con lo sguardo a ripartire.
Quanta merda hai ancora intenzione di ingoiare? Raccogli l'orfana poesia e non lasciarla andar più via, c'è un vecchio amico pronto  ad aspettarti, l'unico che mai ti tradirà, il solo pronto ad offrirti riparo e nel quale rifugiarti nel momento del bisogno.
Bang! bang!
un'unica esplosione, un sol colpo nel silenzio,
silenzio profondo oltre il tempo e lo spazio,
silenzio dimensione a parte,
silenzio buio,
silenzio oscuro,
silenzio intenso...
Silenzio vuoto, assenza totale di spazio che regala un sorriso che lentamente si fa largo tra le labbra!!!!!


giovedì 4 agosto 2011

Caminante no hay camino





Tutto passa e tutto resta,
però il nostro è passare,
passare facendo sentieri,
sentieri sul mare.
Mai cercai la gloria,
né di lasciare alla memoria
degli uomini il mio canto,
io amo i mondi delicati,
lievi e gentili,
come bolle di sapone.
Mi piace vederle dipingersi
di sole e scarlatto, volare
sotto il cielo azzurro, tremare
improvvisamente e disintegrarsi...
Mai cercai la gloria.
Viandante, sono le tue orme
il sentiero e niente più;
viandante, non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando.
Camminando si fa il sentiero
e girando indietro lo sguardo
si vede il sentiero che mai più
si tornerà a calpestare.
Viandante non esiste il sentiero,
ma solamente scie nel mare...
Un tempo in questo luogo dove
ora i boschi si vestono di spine,
si udì la voce di un poeta gridare
«Viandante non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando...»
Colpo dopo colpo, verso dopo verso...
Il poeta morì lontano dal focolare.
Lo copre la polvere di un paese vicino.
Allontanandosi lo viderono piangere.
«Viandante non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando...»
Colpo dopo colpo, verso dopo verso...
Quando il cardellino non può cantare.
Quando il poeta è un pellegrino,
quando non serve a nulla pregare.
«Viandante non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando...»
Colpo dopo colpo, verso dopo verso.