lunedì 28 novembre 2011

Il Viaggio



Fitta nebbia che tutto avvolge
lentamente si dirada
sole pallido che adagio arrossisce
e filtra nel più cupo dei pomeriggi

viale di cipressi che invita a entrare
e ghiaia e sassi e polvere
foglie che volano e vagano   
calpestate da passi silenziosi

porte che si spalancano
brusio e quiete tra
immagini distanti
incenso e fiori colorati

superflue son le parole
silenzi che incrociano sguardi
mani che si schiudono in abbracci
focolare che riscalda l’anima
dolore e gioia fratelli siamesi che
urlano la loro unione dentro al cuore

luce che rischiara le colline
luce che riscalda gli alberi ingialliti
luce che allunga le ombre
luce che dona  pace
campane che salutano e lacrime amare
che scivolano via


Buon Viaggio Mario

sabato 26 novembre 2011

Oceano Mare

Un freddo ma assolato pomeriggio di un autunno lontano. Una pioggia di foglie che si stagliano dagli alberi ingialliti e si posano sui vetri umidi di una piccola mansarda, trasportate da un vento conosciuto. Un vento distante nel tempo che culla i pensieri  come onde inquiete riportandoli indietro. Su una battigia lontana eppure così presente, una bottiglia  galleggia alla deriva. Un messaggio che ritorna alla mente all’improvviso e le pagine di un libro che si aprono, lasciando libere le parole restituendo ricordi di viaggi lontani.
Posa la penna, piega il foglio, lo infila in una busta. Si alza, prende dal suo baule una scatola di mogano, solleva il coperchio, ci lascia cadere dentro la lettere, aperta e senza indirizzo. Nella scatola ci sono centinaia di buste uguali. Aperte senza indirizzo. Ha 38 anni, Bartleboom. Lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia, ma col tempo ha imparato a considerare la cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno, ormai da anni, prende la penna in mano e le scrive. Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma ha una vita da raccontare. E a chi, se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle
-          Ti aspettavo
Lei aprirà la scatola e lentamente, quando vorrà, leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di inchiostro blu si prenderà gli anni – i giorni, gli istanti – che quell’uomo, prima ancora di conoscerla già le aveva regalato. O forse, più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti a quella buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell’uomo
-          Tu sei matto.
E per sempre lo amerà  



venerdì 18 novembre 2011

Mario e la metafora dei tartufi


Correva l’anno 1994 e nelle sale cinematografiche italiane usciva “Il Postino” film di Michael Radford che narrava la storia di un esiliato Pablo Neruda, egregiamente interpretato da Philippe Noiret, e del giovane Mario, interpretato da un affascinato Massimo Troisi, un postino di Ischia incaricato di consegnare la posta al grande poeta cileno. Tra i due protagonisti nasce una profonda amicizia e in una delle scene più celebri del film, “Don” Pablo, alle prese con un problema idraulico e con la grottesca realtà italiana, insegna ad un innamorato Mario la profonda bellezza della poesia ed il misterioso significato delle metafore.
Dalla meravigliosa Ischia, ci trasferiamo in una luminosa stanza di un ospedale di provincia con una splendida vista di “Monettiana” memoria affacciata su una ridente collina interrotta da tre piccoli castagni a poca distanza l’uno dall’altro, un po’ spogli, immobili di fronte al giornaliero movimento delle loro ombre in una fredda giornata invernale. Anche il protagonista di questa storia, si chiama Mario ed è un appassionato contadino umbro di 72 anni, ex operaio addetto alla lavorazione e allo smaltimento della ghisa e dell’amianto (prima che tale materiale venisse dichiarato cancerogeno). Un bel giorno, di circa un anno fa, pur non avendo mai fumato in vita sua, Mario si vede diagnosticare un devastante tumore ai polmoni, conseguenza di quel lavoro svolto per tutta la vita senza alcun tipo di protezione. Le polvere sottili e cancerogene che aveva respirato per circa 30 anni della sua vita, avevano mostrato tutto il loro potenziale. Prima che accadesse tutto questo, Mario coltivava una sconfinata passione per la natura, e da buon contadino umbro, amava dedicarsi alla ricerca di tartufi, di cui aveva fatto un’arte. Addestrava i suoi amati cuccioli di bracco ungheresi che lo accompagnavano silenziosi e fedeli alla ricerca delle prelibate gemme nascoste nel sottosuolo dei Carpini neri, dei Lecci, dei Cerri e dei Tigli nei terreni collinari umbri.
La voce flebile e quasi impercettibile, mi fa cenno di aprire l’armadietto azzurro, ove son custoditi i pochi beni necessari per un “soggiorno obbligatorio in ospedale” e l’indice tremolante mi indica una busta di plastica verde, mi invita a portarla sul letto e a sedermi vicino a lui. Dalla busta emergono una serie di fotografie datate 8 dicembre 1989, “u’jornu da Madonna, si si u’jornu da Madonna” , come tiene a precisare. Le immagini che scorrono tra le mie mani ritraggono i suoi due fedeli compagni e la speciale giornata trascorsa alla ricerca e al successivo ritrovamento del prezioso tesoro. Due enormi tartufi neri purissimi, rispettivamente di 924 e 835 grammi. I suoi occhi improvvisamente si illuminano di una straordinaria luce vitale, è un grande motivo di orgoglio quel ritrovamento, quella giornata è impressa nella sua memoria e riporta in superficie ricordi felici che nonostante la particolare condizione in cui si trova lo risollevano e lo inorgogliscono. Mario segue con lo sguardo le fotografie che scorrono tra le mie mani. Una pausa di tanto in tanto, un colpo di tosse per ricordare ad entrambi che ci troviamo nella stanza n° 15 e non  a passeggio tra i sentieri di una delle verdeggianti colline che si intravedono dalla finestra.
«Che bello Mario, è gigante dev’essere stata una bellissima esperienza? »
«Certo – mi risponde orgoglioso con lo sguardo sempre più luminoso - Un Tartufo nero di queste dimensioni non è un ritrovamento che avviene tutti i giorni, un tartufo nero – mi ripete – non uno scorzone» -, una particolarità di tartufo nero poco pregiato, mi ripete entusiasta.
«E il più pregiato e conosciuto tartufo bianco, invece, dove si trova? »  – con quel suo meraviglioso sguardo che si illumina in continuazione, ti osserva e sembra ringraziarti per il tuo interessamento verso quel suo mondo così semplice eppure così complesso e con quel suo inconfondibile accento umbro inizia a spiegare e darmi prova, nonostante non ce ne fosse bisogno, della profonda conoscenza di questa sua passione infinita.
«No quello bianco è tipico dei pioppi, devi trovare i pioppi e qui in Umbria non è facile e poi avvelenano i cani ».
«In che senso Mario?, che vuol dire che avvelenano i cani? »
Tra una pausa e un’altra mi spiega che spesso, proprio per il valore che tale “gemma” preziosa riveste, alcune persone realizzano e disperdono nel sottobosco, terreno di caccia dei cani,  delle piccole polpette di cibo intrise di veleno per uccidere le povere bestioline che ignari vanno alla ricerca dei tartufi,  e scoraggiare, in tal modo, la gente a dedicarsi a tale ricerca. Il racconto prosegue, e nel silenzio delle pause necessarie a riprendere un po’ di fiato, interrotto dal rumore delle bollicine che emergono dalla macchina per l’ossigeno, Mario mi insegna i metodi di conservazione del tartufo, fase per fase, dall’estrazione alla prima pulitura, all’asciugatura, fino alla successiva preparazione e conservazione nel congelatore per futuri condimenti. È un piacere ascoltare questo anziano contadino, così cambiato rispetto alle foto viste poco prima e così apparentemente più anziano della reale età anagrafica, per colpa di una maledetta malattia che non lo abbandona e lo tortura da oltre un anno.  Ascoltare Mario, è un esempio reale di poesia bucolica, ascoltare i suoi racconti mi ha fatto ritornare indietro ad una scena del film e ad una citazione di Neruda
Quando la spieghi la poesia diventa banale,
meglio di ogni spiegazione è l’esperienza diretta
delle emozioni che può svelare la poesia ad un
animo predisposto a comprenderla

e come per magia nell’istante esatto in cui ripenso a questa citazione la magia si compie. Ed è merito della mia ultima domanda, la più banale forse.
«Mario ma che cosa sono i tartufi? Tuberi, vegetali, ortaggi, funghi? « – La risposta è di quelle da lasciar senza fiato, la magia di una poesia celata dietro il mistero di una metafora.
«Cosa sono i tartufi?» - risponde ripetendo la mia stessa domanda, in tono di riflessione. «Tu sai da dove derivano i diamanti?» - mi domanda
«Si! dal carbone vero? »
«Esatto, proprio il carbone, quello che la befana porta ai miei nipotini quando non fanno le brave, - accennando una timida risata – da un minerale così comune e grezzo si ricava la gemma più preziosa. »
«Mario ma cosa c’entrano i diamanti con i tartufi? »
«Aspetta, lasciami finire, non mi interrompere! » - riprendendo un attimo il respiro, mentre il rumore dell’ossigeno continua incessante, si leva la maschera che ha sul viso, per permettere che le parole vengano udite meglio
«Il tartufo non è altro che un tumore. Un tumore della terra! »
Quella parola, pronunciata senza timore in un momento come questo, con una flebo legata al braccio pieno di ematomi, il sangue che, ad ogni minimo sforzo, scivola giù incanalato in un grosso tubo bianco che dai polmoni termina in una sacca azzurra adagiata sul pavimento, mi lascia senza parole. In questi casi si ha sempre timore a pronunciare questa parola, una specie di modo per esorcizzare il male che ti affligge una forma di timore verso questo “mostro” annidato nel tuo corpo contro cui il tuo stesso organismo combatte una battaglia senza pari.
«Un tumore, proprio come il mio, un’escrescenza della terra che può “annidarsi” tra i 5 e i 60 centimetri di profondità nel sottosuolo boschivo. E così come dal carbone nascono i diamanti, da un tumore della terra viene fuori uno dei cibi più prelibati, gustosi e cari presenti sulle nostre tavole, conosciuti e degustati sin dagli antichi romani. Una splendida sorpresa che sboccia da un’apparente orrenda malattia della terra, eppure guarda, guarda ancora quella foto, osserva che gioiello è riuscito a venir fuori. »
Si ferma un attimo per prender fiato, inserisce di nuovo la maschera d’ossigeno e chiude per un attimo gli occhi. Un rivolo di sangue scorre lungo il tubo bianco, e riprende a parlare.
«Sono stato operato 14 volte fino ad oggi, q u a t t o r d i c i – mi ripete scandendo bene le parole – eppure son qui. Questi medici non son bravi come me a estirpare i tumori e trasformarli in tartufi.»
Sorride ancora una volta e con una voce ancor più flebile aggiunge:
«Nonostante questo io son ancora qui e son sicuro che prima o poi questo tumore bastardo si trasformerà in un bellissimo tartufo il più bello il più importante di tutta la mia vita. da una cosa negativa ne vien fuori sempre una positiva, io lo so, ne ho le prove».
Chiude gli occhi si scusa ma è stanco e mi fa cenno di voler riposare, un sorriso luminoso e sereno compare sul viso glabro e sciupato e si addormenta dolcemente. Ripongo le foto nell’armadietto e mi siedo al suo fianco accanto al letto osservando la luce di novembre che dipinge la collinetta di fronte di una patina dorata.  L’infermiera di turno mi fa cenno di uscire, non prima di voltarmi a osservare ancora una volta il mio eroe stanco.
«Auguri Mario».