lunedì 24 settembre 2012

EOLIA


Era trascorso ormai, oltre un anno dall’ultima volta che Marco e Kublai Khan si erano salutati. Nonostante il tempo trascorso, la nostalgia del mercante veneziano e dei suoi racconti continuava ad attanagliarsi nei pensieri e nel cuore dell’anziano sovrano. Fu proprio in quella fresca sera di settembre che il Gran Khan passeggiando nel cortile del suo palazzo, ripensando al giovane Marco, vide uno strano bagliore nel cielo. Una fulgida luce, che svanì lentamente lasciando dietro di sé una scia infuocata che terminò la sua corsa al suolo, in direzione della nafora di ceramica bianca e azzurra. Imbracciato il bastone con improvviso vigore il Gran Khan spinto dalla curiosità, decise di dirigersi in tale direzione.
Un oceano e quindici giorni di cammino verso oriente, separano Eolia dalla residenza del sovrano. Città dai due volti, Eolia è una perfida strega di giorno, e la più dolce e tenera tra le fate durante la notte.  Niente e nessuno può abbandonare le sue mura durante il dì, ogni essere ,ogni anima,ogni desiderio è imprigionato nelle possenti braccia del secolare acero che si erge al centro della sua piazza.
Eolia è la città dell’illusione. Tramontana raccoglie i desideri affidatele dagli ignari abitanti e li sacrifica, fedele, al grosso albero dell’oblio. Ma Eolia è anche la città della speranza. Ponente è il suo messaggero fidato, che libera i desideri e permette loro di volare liberi durante la notte.
Ombre sinuose camminano nell’oscurità, un appuntamento segreto nel bosco incantato. Un luogo nascosto, nel quale abitanti e viaggiatori occasionali si danno appuntamento ogni sera per rendere omaggio ad Eolia, sacrificando otri fluttuanti cariche di sogni, speranze e desideri. Un rituale segreto, antico come la notte dei tempi,  si ripete ogni sera,  l’antica mappa dello zodiaco si illumina all’improvviso e una danza rituale contagia e coinvolge gli abitanti di Eolia che rivolgono il loro sguardo alla luna.
Tre giovani Parche, aprono le danze rivolgendosi al cielo, invocano il fuoco che improvvisamente si sviluppa e illumina l’oscura foresta. La donna dall’occhio infuocato allarga le braccia al cielo liberando lo scrigno dei sogni verso l’alto e lo  affida ad Eolia e ai suoi due messaggeri. Gli abitanti uniti tra loro liberano le loro otri e Tramontana e Ponente si incontrano e si scontrano per contendersi i preziosi tesori. Solo le otri con i messaggi più sinceri, riescono a sfuggire alle grinfie dell’albero dell’oblio e lasciare finalmente Eolia e le sue terre. 
Raggiunta la fonte della Speranza, l’anziano Khan si chinò a raccogliere un plico leggermente bruciacchiato, sigillato con la ceralacca con impresso l’inconfondibile stampo del suo fidato ambasciatore. Senza alcuna titubanza, il Gran Khan aprì il sigillo e distese la pergamena ed iniziò a leggere:
- Mio venerato Khan, se questo messaggio è giunto tra le tue mani,vorrà dire che Ponente avrà svolto correttamente  l’incarico affidatogli ed avrà finalmente esaudito il mio desiderio. Ancora una volta Eolia avrà mantenuto la sua promessa e compiuto la sua magia. I nostri sogni saranno di nuovo liberi di ricominciare a volare ed io potrò finalmente riprendere il mio viaggio alla scoperta di nuove città di cui narrarti mio venerabile Khan.












venerdì 30 marzo 2012

Varanasi

Un altro giro di giostra
Dall’alto della terrazza del Ganges View, guardavo ogni mattina il sole sorgere dall’altra riva del Gange e sulla mia riva la folla di fedeli chinarsi verso l’acqua, prenderne una manciata, alzare le mani al cielo e offrire ai primi raggi le gocce che cadevano scintillando.
Uno stranissimo spettacolo: su questa sponda del fiume per alcuni chilometri decine di migliaia di persone rivolte all’acqua, ai piedi delle scalinate, dei templi, delle case, e dei palazzi, in mezzo ai canti, le preghiere, e i suoni di campanelle;  sull’altra sponda nessuno, niente, solo un velo di misteriosa caligine sulla terra completamente deserta. Il pieno e il vuoto, la luce e l’ombra, il suono ed il silenzio: un’altra grande metafora dei due opposti che fanno Uno, della Verità che è armonia di contrasti. Perché Benares è sacra ma solo ad Ovest. E solo chi muore sulla sponda occidentale del Gange, la sponda affollata, rumorosa e assolata, sulla sponda dove notte e giorno bruciano gli avidi fuochi delle pire, si salva dal rinascere. Sull’altra sponda non succede mai nulla, tranne l’approdare di qualche cadavere di bambino o di sadhu[1] che la corrente deposita sulla sabbia. Là niente esiste o diviene. Là la morte non è liberazione.
È così da quando l’uomo ricorda. Benares è la più antica città vivente e da quattromila anni milioni e milioni di indiani sono venuti qui a morire, certi di non dovere tornare a vivere. Perché quella sponda occidentale del Gange è l’unico posto sulla terra dove gli dei lo permettono. Per questo Benares, la città sacra, la città della morte, è fuori dal mondo, appartiene ad una diversa realtà, vive in una diversa dimensione.
A volte avevo davvero bisogno della protettiva distanza della terrazza per non perdermi e cercare di capire. Per noi occidentali è difficile identificare il sacro con lo squallore, lo sporco, il putridume. Ma quella indiana è anche la civiltà che ha come ideale di vita i mendicanti, dovevo ricordarmi, e anche io ero preso da quel sacro fervore di morte che non aveva in sé alcuna tristezza.
Succede che, osservando un dettaglio, si è colpiti dall’insieme in cui quel dettaglio è insignificante. Una mattina, quasi senza farci caso, seguii con lo sguardo una donna che, premurosa e diligente, annaffiava e accomodava una bella corona di fiori arancioni al collo di una piccola dea di pietra in riva al Gange, sotto la mia terrazza. Arrivò una capra nera e gliene portò via un boccone. Stava per farsene un altro, ma venne cacciata da una mucca che in un sol colpo ingurgitò tutta la bellezza e le preghiere che la donna stava ancora offrendo alla sua dea. Nessuno si ribellò e presto la donna, la capra e la vacca si allontanarono ognuna per la sua strada, avendo ognuna fatto la sua parte nell’immensa commedia-illusione di miliardi e miliardi di persone e animali, essere visibili e invisibili che in questo stesso momento in miliardi di diversi pianeti nell’eterno tempo dell’infinito universo continuavano a girare nella ruota dell’essere.
Angela, arrivando anni prima su quella terrazza, aveva detto:
«Da qui si vede il mondo come lo deve vedere Iddio…e si capisce che non possa occuparsi di tutto quello che succede»
È possibile che parte della nostra inquietudine di occidentali ci venga dal fatto che vogliamo invece occuparci di quel che succede nel modo ed anche cambiarlo? Che ci sia davvero una grande saggezza nel pensiero orientale secondo cui ciò che è fuori da noi è immutabile e che la sola speranza è cambiare dentro noi stessi?
Questo era anche il messaggio dell’Illuminato per il quale però il cambiare se stessi doveva esser frutto di uno sforzo, di «un lavoro diligente». La salvezza non veniva, secondo lui, semplicemente morendo a Benares. E non a caso era andato ad annunciarlo a Sarnath.
Camminando dal Gange View Hotel verso nord, lungo le scalinate che scendono al fiume, si incontrano due campi di cremazione dove il compito di disporre dei corpi, in pubblico, sotto gli occhi di tutti, non cessa mai. Passai ore ad osservare l’andirivieni dei morti e dei vivi, il continuo affaccendarsi attorno ai fuochi degli addetti ai lavori e dei parenti. Mi colpì che nessuno mai, piangeva. La morte era un fatto contro cui nessuno sembrava ribellarsi. E noi occidentali invece, abbiamo tanta difficoltà ad accettarla! Per noi la morte è sempre una sconfitta, qualcosa contro cui dobbiamo combattere con ogni mezzo e anche in extremis sperare magari in un «miracolo» che induca la natura a cambiare, almeno per una volta, le sue immutabili leggi.       
Una volta una donna si presento all’Illuminato con in braccio il suo bambino appena morto e gli chiese un miracolo, di ridargli la vita. Buddha disse che lo avrebbe fatto, ma a una condizione: che la donna gli portasse un pugno di risoi di una famiglia che non fosse mai stata visitata dalla morte. La donna corse via, andò di casa in casa, di villaggio in villaggio, ma dovunque si rivolse c’era stata un morto. La donna tornò da Buddha, rassegnata. Ma aveva capito e «Colui che è passato da qui» la consolò. Ora erano tutti e due sulla stessa strada.
E il corpo? A guardare quelli che sbrigativamente venivano mandati in fumo sulle pire pensavo a quanto noi ci identifichiamo col nostro corpo e a come ci è impossibile staccarcene. Persino le nostre speranze di immortalità e di resurrezione hanno a che fare col corpo. Noi non riusciamo come gli indù o l’Illuminato a vedere nel corpo uno strumento che, una volta usato, è da buttar via senza rimpianti.
Per le strade di Benares si incontrano in continuazione le processioni dirette ai campi di cremazione. Il cadavere, avvolto in un lenzuolo, la faccia scoperta al sole, è disteso su una barella di bambù portata a spalla da quattro uomini. Il corteo non ha niente di funereo, di lento, di strascicato. Al contrario. Avanza a passo di marcia, quasi correndo, senza tanto riguardo per il morto, che precario nella barella sobbalza e scuote la testa. Non c’è musica funebre che lo accompagna; solo il veloce, martellante grido di alcuni «Ram nama satya hey» solo il nome di Ram è verità e la risposta del coro che ribatte: «Satya hey, satya hey», verità, verità. E avanti, alla svelta verso la pira dove il primogenito del defunto che si è appena rasato la testa, appicca il fuoco, osserva le fiamme che divorano la legna e la carne e alla fine butta sulle ceneri una ciotola d’acqua sacra del Gange; poi, senza voltarsi, va a fare le abluzioni di purificazione e torna nella ruota del mondo.
Il funerale non è di suo padre ma del suo corpo, una materia ormai inutile, senza alcun valore di cui è necessario e facile sbarazzarsi.
A noi occidentali invece è naturale vedere il defunto nel suo corpo e fare di quel corpo l’oggetto del nostro dolore. Quando poi si tratta del nostro proprio corpo l’identificazione è ancora più grande. Per questo quell’andare in fumo ci fa paura e non ci basta la visione sufi del mio amato Rumi che scrive:

Sono già morto minerale e diventato pianta
Son morto pianta e mi sono elevato ad animale
Son morto animale e ora, eccomi uomo.
Perché aver paura?
Quando mai sono diventato di meno
Morendo?

Un giorno Shashank venne a sedersi accanto a me sulla terrazza. Mi aveva portato un libro su Benares che, disse, dovevo assolutamente leggere. Aveva ragione. Fra le tante belle storie su questa città fuori dal mondo, ci trovai anche un passo dei Brahmana, parte degli antichi testi sacri dell’India. Sono i versi in cui Indra, il dio protettore dei viaggiarori, incoraggia un giovane di nome Rohita a intraprendere una vita sulla strada:

Non c’è felicità per chi non viaggia Rohita!
A forza di stare nella società degli uomini,
Anche il migliore di loro si perde.
Mettiti in viaggio.
I piedi del viandante diventano fiori,
La sua anima cresce e dà frutti
E i suoi vizi son lavati via dalla fatica del viaggiare.
La sorte di chi sta fermo non si muove,
Dorme quando quello è nel sonno
E si alza quando quello si desta.
Allora vai viaggia, Rohita!

Ovviamente Indra aveva trovato un modo di parlare anche a me. Alcuni giorni dopo tornai a Delhi e da lì,avanti. Non ero pronto a fermarmi, tanto meno sotto un albero. In fondo ero sempre solo una spugna e i miei piedi pensavano ancora di poter diventare dei….fiori.

Tiziano Terzani
“Un altro giro di giostra”  Ed. Tea pagg. 201 – 205




[1]  Neonati e Sadhu non vengono cremati, ma lasciati alle acque.





mercoledì 29 febbraio 2012

World Press Photo 2012

















A Dream

Indra, il dio protettore dei viaggiatori, incoraggia un giovane di nome Rohita a intraprendere una vita sulla strada:


Non c’è felicità per chi non viaggia, Rohita!
A forza di stare nella società degli uomini,
Anche il migliore di loro si perde.
 Mettiti in viaggio.
 I piedi del viandante diventano fiori,
 La sua anima cresce e da frutti,
 I suoi vizi sono lavati via dalla fatica del viaggiare.
 La sorte di chi sta fermo non si muove,
Dorme quando quello è nel sonno,
 Si alza quando quello si desta.
 Allora vai, viaggia, Rohita !



giovedì 16 febbraio 2012

Jack lo spazzacamino - III parte





Godendo della vista esclusiva sulla città, i due funamboli iniziarono a raccontarsi fin quando una riflessione di Eloise stravolse tutte le carte in tavola, e cambiò completamente l’esito di questa storia.
«Sono stanca Marco, e mi capita da un po’ di tempo a questa parte di voler lasciare la presa del mio trapezio e scivolar giù. Ti è mai capitato di voler lasciare la presa quando ti rendi conto che è inutile restare ancora legati al trapezio quando dall’altra parte non hai la certezza di avere qualcuno pronto ad afferrarti e sorreggerti. Ho un dolore immenso alla mano sinistra, la mano del cuore, e mi chiedo che senso abbia continuare ancora a restare legati alla presa? Non ho più forza o semplicemente è giunto il momento di accettare le cose e lasciar andare la presa» 
Quelle riflessioni, aprirono uno squarcio nel cuore di Jack , per un attimo la sicurezza nello star seduto lassù venne meno, e un inizio di tremito percorse le sue gambe. Entrambi i funamboli con lo sguardo fisso sul lento scorrere della Senna attraversata dai battelli lucenti all’imbrunire, si abbandonarono a qualche istante di silenzio,interrotto dalle parole di un Jack, improvvisamente trasformato.
«Mollare la presa come accettazione di un momento negativo. La tua liberazione Cara Eloise, assume i contorni di una accettazione equivalente a rassegnazione ad abbandono, non posso avere ciò che desidero, allora mi rassegno abbandono la presa e mi lascio cadere giù.  Corretto, ma ritengo che molto dipenda da quale sia la posta in gioco. Credo che prima di mollare la presa sia importante indagare a fondo se e quanto sia importante quel trapezio per me. Se quel trapezio rappresenti per me il bene indivisibile senza cui non posso vivere, allora farò di tutto per restar attaccato a quella presa. E se non dovessi farcela, allora lo accetterò ma come consapevolezza, non con abbandonata rassegnazione.
Spesso si gettano le armi prima ancora di aver lottato, perché si è rassegnati ad un destino avverso, che magari ci mette alla prova per vedere la nostra reazione. Si  accetta l’apparenza delle cose senza indagare, approfondire e, pertanto, si accetta la decisione di un qualcosa che chiamiamo destino, senza lottare. Ed è in questi casi che accettazione equivale a rassegnazione.  
Mi capisci Eloise?»
La giovane trapezista annuì silenziosa.
Soddisfatto, Jack riprese a parlare.
«Ci sono delle volte in cui quel trapezio è così importante per noi che prima di accettare la sconfitta (rassegnarci) ci danniamo anima e corpo alla ricerca di una soluzione, di una strada per affrontare il momento di difficoltà che stiamo attraversando. Durante le battaglie cambiano le strategie come ben sai, e non si sa bene che armi usare per far fronte alle nuove difficoltà. Bisogna allora studiare se esistono altri mezzi per affrontare la situazione, altre armi per combattere il nemico e sconfiggerlo ed una volta trovate affrontare e lottare restando saldamente incollati a quella presa senza mollarla nemmeno per un istante. Non è una strada facile, si attraversano momenti di appannamento, di stanchezza, verso il mondo e verso se stessi, la presa scivola, e si tende a mollare.  Se riusciamo però a trovare nuovi mezzi, e nuove strategie, allora sarà semplicemente sufficiente cambiare mano, o mettere un po’ di gesso in più per tenerci ancor più saldamente ancorati a quella presa.  Alle volte basta saper tener duro e quando la presa è realmente importante allora lottare trovare nuovi strumenti e continuare a volteggiare».
Eloise che fino a quel momento aveva seguito con estrema attenzione le parole di Jack, ruppe il silenzio con un’altra domanda
«Ma cosa succede se, invece, acquisisci la consapevolezza che la cosa migliore da fare per salvare te stesso da un baratro inesorabile sia quella di mollare la presa, perché il trapezio non riveste l’importanza che tu avevi attribuito o semplicemente sei tu a non rivestire quel ruolo che ti eri arbitrariamente attribuito»
Una nuova pausa.
Un Jack completamente diverso da quello conosciuto fino a quel momento, si portò una mano sotto il mento, accarezzando la barba incolta, e con lo sguardo perso verso Montmartre e la sua splendida collina illuminata dall’ultimo bagliore pomeridiano rispose
«La semplice considerazione di esser giunta all’idea, o meglio alla consapevolezza della necessità di liberare la presa è già una risposta alla tua domanda, cara Eloise. È inutile continuare a mantenermi saldamente agganciato sapendo che dall’altra parte non ci sarà nessuno pronto ad afferrarmi. Meglio scendere dal trapezio adesso prima di farmi ancor più male, prima di spiccare il volo senza la rete sotto che potrà sorreggere una mia caduta. La nostra felicità, il nostro amor proprio deve venir prima di ogni altro sentimento. Amare è condivisione non dolore»
«Per arrivare a comprendere tutto questo – continuò Jack – il percorso non è così semplice, ci vuole tempo e quando c’è di mezzo l’amore ogni cosa diventa relativa. Ti ricordi, abbiamo già parlato della sottile differenza tra illusione e speranza. Alle volte, la gioia che proviamo, legata al ricordo di una persona, ci fa credere che quel sentimento sia ancora vivo e nonostante la consapevolezza dell’opportunità di lasciare la presa e cader giù dal trapezio, continuiamo a restarne attaccati. Perché ci comportiamo così? La risposta è racchiusa nel fatto che dentro ognuno di noi si sviluppa l’illusione (speranza) che prima o poi quella persona possa tornare da noi. Possa riprendere la nostra mano prima che noi stessi abbandoniamo la presa. Tutto questo ci impedisce di abbandonare la presa nonostante i dolori lancinanti. Presto o tardi, però, arriva un momento in cui tutto cambia e anche la più salda delle prese, sorretta dalle speranze più forti cede il passo all’abbandono. Il dolore ha un limite e bisogna lasciare per poter continuare a vivere. È simile all’istinto di sopravvivenza insito dentro ognuno di noi. Quel richiamo ancestrale che ci viene in soccorso nel momento di difficoltà estrema.»
«Aspetta non ho finito, ti prego ascoltami ancora un istante Eloise»
Quando ti ho rivista a Parigi l’altro giorno a Place A.Malraux, a distanza di oltre un anno dall’ultima volta, è stato un tuffo al cuore. Tutto ciò che avevo fatto per dimenticare la locanda e le sue stanze è riaffiorato in un istante in tutta la sua forza. È stato una gioia ritrovarti, nuova linfa vitale che si è sprigionata per tutto il corpo. Ben presto però, l’incanto finisce e la razionalità prende il sopravvento sull’impulsività. Il cervello vince sul cuore.  Il dolore prende il sopravvento sulla gioia. Ed è stato proprio in quel preciso istante che ho deciso di abbandonare la presa realmente. La gioia provata inizialmente rivedendoti, altro non era che un’ulteriore illusione, frutto della mia fantasia. L’ennesima illusione che quella presa avessi dovuto mantenerla ancora salda perché prima o poi tu saresti risalita su quel trapezio afferrando la mia mano è svanita come questa neve che ho tra le mani, nel momento stesso in cui mi hai confidato le tue ultime paure. Grazie alle tue riflessioni e alle tue domande ho finalmente compreso quanto sia inutile  tener salda quella presa»
Silenzio
Osservando Eloise negli occhi, Jack prese in prestito una vecchia frase che da qualche tempo accompagnava il suo cammino e iniziò a recitarla:

Esistono soltanto due giorni durante l’anno
in cui non è possibile far nulla.
Uno si chiama ieri e l’altro domani.
Pertanto oggi è il giorno ideale
per amare, crescere fare e
principalmente vivere

«Non commettere il mio stesso errore, dolce Eloise sarebbe un peccato. – proseguì una volta terminato di recitare -  Non lasciar andare il tuo oggi, guardando il passato o aspettando il futuro. Non si applaude con una mano soltanto, ne occorrono necessariamente due.  Addio dolce Eloise».
Una carezza, percorse il viso della trapezista e prima ancora che potesse dire anche solo una parola, un balzo e Jack scomparve all’orizzonte. I nomadi son così come arrivano vanno via, il vento è la loro unica guida.
FINE

Qualche giorno più tardi, come previsto il circo aveva valicato i Pirenei e raggiunto la meravigliosa città di Barcelona. In attesa dell’inizio del primo spettacolo pomeridiano, Eloise aveva approfittato di un po’ di tempo libero per far una passeggiata lungo la Rambla e schiarirsi un po’ le idee. Le parole di Jack, non avevano ancora sgombrato la sua mente. Il lento incedere dei passi tra i viali alberati venne ben presto interrotto da un’ improvvisa raffica di vento che fece volare il piccolo basco nero della trapezista, lasciando liberi i lunghi capelli. Una corsa per afferrare il cappello ed una sorpresa al suo interno. Un foglio di carta sgualcito era rimasto impigliato all’interno della piccola visiera di stoffa. Estratto il foglio e aprendolo con estrema attenzione, Eloise si trovò in mano una poesia:

Ho visto i tuoi capelli neri come la notte,
ribelli come il vento che soffia tra gli affollati viali
del Parque del Retiro

Ho seguito il lento ma allegro incedere dei tuoi passi
attraversare il Paseo del Prado,
passo dopo passo leggero e svolazzante

Ho osservato le tue mani
sottili e affusolate
accarezzare le gelide acque
dell'oceano Atlantico
in cerca di conforto

Ho assaporato le tue labbra
rosse come pesca
nel dolce bacio
di due innamorati di Lisbona

Ho appoggiato la mia testa
sulle tue spalle esili
per piangere e sfogare dolori
celati all'umanità intera,
hogar antico rifugio per l'anima

Ho abbattuto edifici di errori
e costruito castelli di illusioni
crollati al primo soffio di vento
ma ho perseverato nel costruire
perché quelle illusioni
erano per me linfa vitale

Ho provato a cancellare orme sulla sabbia
come lapidi su cui sotterrare ricordi
ma la gioia e' immortale e i sogni infiniti

Ho imparato a godere con te
delle stelle ascoltando le loro leggende
consapevole che sotto quel manto oscuro
c'e' sempre un mare, pronto a cullarle.
Ogni stella che cade finisce in mare
e' lì che ti ritrovo ogni volta che le osservo

Ho sognato le tue gambe e i tuoi seni
ma le mie mani muovendosi ti hanno persa.
Mi son svegliato e non eri più accanto a me
o semplicemente non lo eri mai stata
                                                                                                Jack
                                                                                     Un anno fa

mercoledì 15 febbraio 2012

Jack lo spazzacamino II parte



Era trascorso appena qualche giorno e le parole di Alain risuonavano ancora nella mente del giovane spazzacamino, quando la fune utilizzata per la pulizia dei comignoli e per gli astratti volteggi circensi si spezzò all’improvviso. Quel banale inconveniente, si trasformò nell’occasione per Jack di tornare in contatto con la realtà cittadina e godere della sorpresa che il destino aveva in serbo per il giovane funambolo.
Scivolato giù per le grondaie secondarie, il giovane spazzacamino si tuffò tra le vie frenetiche della città, non senza sbuffare e maledire quello stupido contrattempo che lo aveva costretto a interrompere il suo lavoro. Lui che preferiva sempre osservare la città dall’alto dei suoi tetti senza prender parte alla vita sottostante,  quasi fosse una dimensione personale, nella quale arroccarsi al sicuro dalla monotonia cittadina.
 «Venghino siori e siore, il circo “de Nuages” è arrivato in città, solo per pochi giorni potrete assistere al più grande spettacolo circense di tutta Europa, venghino siori e siore!!”
Una voce sottile ma acuta proveniva dall’interno di Place A.Malraux. Nonostante la decisa convinzione di non andare al circo, Jack decise comunque di avvicinarsi e dare un’occhiata. Un morso ad un’aspra ma deliziosa mela verde, gentilmente “donata” dal fruttivendolo all’angolo tra Rue de Richelieu e Rue Villedo e via a passo svelto verso la piazza. Cappello abbassato sulla fronte, come di consueto per eludere gli sguardi della gente,  Jack si avvicinò alla folla assiepata a seguire l’improvvisato  spettacolo di strada.
«Troppa gente, non si vede nulla, che sciocco son stato a farmi abbindolare e venir fin qui - pensò Jack dando un altro morso al succoso frutto  - meglio andar via». Proprio mentre stava per allontanarsi, improvvisamente vide un bizzarro giocoliere ergersi tra la folla. Magro, con due lunghissimi trampoli di legno ricoperti da un enorme pantalone bluette a zampa d’elefante sorretto da due bretelle arancioni ed un buffissimo naso rosso da pagliaccio, faceva volteggiare in aria tre birilli colorati osservando sorridente il pubblico dall’alto. «Proprio come me» pensò il giovane spazzacamino, lasciandosi andare ad una risata immediatamente trattenuta dentro il Parka imbottito. Fu a quel punto che Jack prese la decisione di  fermarsi un po’ di più a osservare quel buffo spettacolo. Irritato però dall’eccessiva affluenza della gente e dall’impossibilità di godere di una buona visuale, con l’abilità tipica dei vagabondi, spiccò un piccolo salto e iniziò a salire rapidamente su uno dei lampioni ai piedi del quale aveva luogo lo spettacolo.
Ai piedi del trampoliere, si ergeva in tutta la sua imponenza un simpatico nano in tight arancione luccicante, con un megafono di cartone in mano. «Ecco di chi era quella voce» e di nuovo un sorriso fece capolino tra le labbra dello spazzacamino. In mezzo  alla gente intenta ad osservare, il nano dal viso simpatico e coinvolgente insisteva nel suo proclama passando attraverso le gambe del giovane trampoliere, con il megafono in mano, attento a non urtare le gambe di legno del giovane collega. Rapito dalla sintonia dei loro movimenti, per un attimo Jack si disinteressò dello spettacolo per chiedersi quante ore di allenamento vi fossero dietro un improvvisato teatrino come quello e, da quanto tempo si conoscessero i due bizzarri circensi, data la sintonia che oltrepassava il semplice numero artistico e si percepiva dai gesti d’intesa scambiati tra i due. Ritornato con la mente sulla terra ferma, Jack vide due uomini muscolosi farsi largo tra la folla sbigottita, trasportando sulle ampie spalle muscolose una trave di legno oscillante. Al centro della pista, come per magia ecco sbucare una giovane donna dai capelli neri e gonnellina bianca svolazzante. «E’ un classico trucco d’illusionismo - pensò immediatamente Jack - si attira l’attenzione da un lato, e si lascia il campo d’azione libero per il numero principale, ingenerando sorpresa nell’ignaro osservatore».
Il trampoliere ed il nano come per magia erano svaniti nel nulla, forse risucchiati dalla folla sempre più nutrita. Il centro della scena, adesso, era stato guadagnato dalla giovane, che con un inchino conquistò la folla. Con un’eleganza ed una grazia fuori dal comune, la giovane spiccò un salto e si mise a sedere sulla trave, oscillando le gambe in aria tra le pieghe svolazzanti del gonnellino bianco. Un impercettibile movimento dei due omoni ed ecco la giovane funambola balzare in piedi in equilibrio sulla trave, i piedi morbidi ed affusolati, leggeri come piume nonostante la precarietà di quell’equilibrio.
«E’ come il battito d’ali di una farfalla immobile sullo stelo di un fiore» - immaginò Jack.
Nella lenta ma perfetta oscillazione della trave la giovane artista iniziò il suo numero, differenti esercizi si susseguirono rapidi in un crescendo di acrobazie spettacolari, tra l’ammirazione convinta della gente. Tra un volteggio e un altro, in un silenzio privo di spazio e tempo, lo sguardo della trapezista incrociò quello del giovane spazzacamino. Fu un istante. Un attimo sospeso in una dimensione indefinita senza spazio né tempo, in cui ogni cosa sembrava essersi arrestata. Il mondo circostante scomparso, risucchiato dentro la profondità di quella scintilla improvvisa ed un silenzio irreale aveva avvolto ogni brusio. Un secondo dopo tutto era svanito. I piedi della trapezista ritrovarono il legno morbido della trave e lo scrosciare degli applausi risuonò fragoroso rompendo come d’incanto la magia del momento. Un istante più tardi, anche la trapezista scomparve avvolta dalla folla entusiasta.  Fischi di ammirazione, applausi scroscianti e di nuovo il megafono che invitava a seguire l’intero spettacolo al circo, riportarono ogni cosa nell’alveo della realtà . Gli sforzi di Jack per ritrovare la giovane artista sfruttando la sua posizione privilegiata, si dimostrarono vani. Un attimo così intenso e profondo svanito in un secondo. Solo un’immagine impressa nella mente del giovane spazzacamino, accompagnata dalla sensazione di aver già incrociato quello sguardo in passato. Affannato si precipitò giù dal lampione deciso ad assicurarsene. Ogni tentativo risultò vano, la trapezista era svanita nel nulla. Rassegnato, Jack decise allora di riprendere la sua giornata, non prima di tirare una moneta all’interno del cappello che il giovane nano teneva tra le mani mentre passava tra le gambe degli spettatori. Un suono sordo e la moneta che si infila e mescola alle altre nella tuba nera del circense, un cenno d’intesa con il nano e via.
 
   Il freddo di febbraio a Parigi quell’anno fu anomalo e incessante. I tetti della capitale francesi erano una lastra compatta di ghiaccio e il lavoro di Jack e dei piccoli spazzacamini suoi colleghi era reso maggiormente complicato, dalle abbondanti nevicate di quei giorni che ostacolavano le consuete operazioni di pulizia. Terminato il lavoro, il piccolo spazzacamino suonava l’armonica in compagnia di Alain e della sua immancabile sigaretta, ripensando alla profondità di quello sguardo ormai indelebile.
«La sensazione, Alain, è quella di ritrovarsi per un istante nudi fin dentro l’anima. Uno sguardo così penetrante da escludere ogni cosa attorno, facendoti sentire un tutt’uno con l’altra persona».
«Tu devi riposare, Jack sei troppo stanco, perché non vieni dentro a riposarti, almeno stai al caldo e ti ripari dal gelo di questi giorni»  disse Alain, maggiormente preoccupato per la salute dell’amico che per le sue rivelazioni.
L’orgoglio di Jack era troppo grande per accettare una tale proposta e poi il piccolo vagabondo amava la sua libertà e la sua vista privilegiata, rifiutò in modo garbato e saluto l’amico, riprendendo a suonare la consueta malinconica melodia.
I pensieri quella notte tornarono indietro nel tempo ad una calda estate di qualche anno prima quando il giovane Jack, al ritorno da uno dei soliti viaggi intorno al mondo, era approdato in un accogliente porto e qui vi si era fermato per un po’ frequentando una meravigliosa locanda affacciata sul mare abitata da una splendida ragazza di cui il giovane spazzacamino si era perdutamente innamorato. Ma l’incantesimo era durato poco, il tempo di restarne profondamente ferito e di rassegnarsi all’idea di dovervi rinunciare. Non si può imprigionare una farfalla, son esseri stupendi che devono esser lasciati liberi per vivere e godere della loro bellezza altrimenti perdono la loro meravigliosa magia ed i loro infiniti colori e finiscono col morire. 
Il mattino seguente, alle nove in punto il giovane spazzacamino iniziò a correre per i tetti di Parigi, deciso a far chiarezza sulla sensazione che lo aveva accompagnato per tutto il giorno precedente. Lo sguardo incrociato in Place A.Malraux, doveva essere necessariamente quello di Eloise, non poteva sbagliarsi. Iniziò con il chiedere agli altri colleghi, se qualcuno avesse visto gli artisti del circo in giro per la città. A distanza di qualche ora, Antoine, un operaio addetto al ripristino degli impianti idrici di Place de la Republique, aveva invitato Jack a recarsi nella zona di Montparnasse, nei pressi della stazione, ove i circensi si sarebbero esibiti a mezzogiorno. Questa volta, però Jack non volle mischiarsi tra la folla, voleva evitare di esser visto e fare in modo di poter osservare tutto lo spettacolo in silenzio dall’alto, verificando se le sue supposizioni fossero reali o frutto della sua fantasia, o per meglio dire del ricordo.
Proprio alle spalle della stazione, nei viali alberati dei Giardini Atlantique, il nano ed il trampoliere avevano già iniziato il loro simpatico siparietto. Nascosto sui rami di una splendida magnolia Jack si godeva lo spettacolo, in attesa di veder sopraggiungere quello che ormai era diventato il suo pensiero fisso. Il tempo passava senza che si vedesse alcuna trapezista farsi largo tra la folla.
Lo sguardo di Jack troppo impegnato sullo spettacolo non avevo notato la dolce Eloise, seduta su una panchina poco distante.  La trapezista, dismessi i panni da circense, era avvolta da una lunga gonna di lana colorata, ai piedi due ballerine un po’ usurate dal tempo, ed una mantella color del mare a coprirle il corpo esile, in testa un simpatico cappello di lana nero, un po’ bombato con una piccola visiera a coprirne gli occhi da cerbiatta. Assorta nei suoi pensieri, stava lì seduta con le mani sulle ginocchia, senza curarsi dell’anziano uomo che portava a spasso il levriero afghano al suo fianco intento a non perdere il cappello per l’insorgere di un’improvvisa folata di vento, o dei due innamorati intenti a scambiarsi effusioni nella panchina difronte, la sua. D’altro canto c’era poco di cui sorprendersi, la presenza di Eloise, era sempre stata una presenza discreta ed impercettibile, tipica del suo carattere. Le mani affusolate sulle ginocchia si muovevano, e lo sguardo seguiva attento quei movimenti. I suoi occhi seguivano le singole linee del destino disegnate all’interno della mano, scrutando i singoli sentieri nella speranza di ricevere risposte lontane. Un attimo e finalmente, l’esile sagoma di Eloise entrò nel cono di luce del vagabondo che ne rimase rapito. La iniziò a osservare come si ammira un gioiello inaspettato, un diamante del quale non si vuol perdere nemmeno il più piccolo barlume di luce o riflesso. La contemplava silenzioso domandandosi perché non fosse vestita da trapezista e come mai non fosse ancora entrata in scena.
Lo spettacolo del nano e del trampoliere era terminato nel frattempo ed i due circensi, lentamente si erano avvicinati alla giovane trapezista, che distogliendo per un attimo lo sguardo dalle mani, alzò gli occhi osservando i due circensi con espressione umana e dolce come una carezza, invitandoli ad andare pure, facendo intendere che si sarebbe trattenuta ancora un po’ su quella panchina. I due circensi, un po’ rassegnati ma incapaci di contravvenire a cotanta dolcezza fecero marcia indietro ed andarono via.


Con un balzo repentino, degno dei più grandi randagi della storia, Jack, saltò giù dai rami e si catapultò alle spalle della ignara Eloise, poggiandole delicatamente le mani sugli occhi coprendoli.
«Smettila Giles, lo so che sei tu, ma ti ho detto che preferisco restare un po’ da sola, e che tra un po’ verrò da sola al tendone».
Nessuna risposta. Un attimo e in una frazione di secondo con uno scatto impercettibile la trapezista si divincolò della presa e si voltò. Le pupille si dilatarono e il mondo si fermò per un istante. La persona che aveva difronte non era il nano Eff, e neanche il trampoliere ma non era neanche la persona alla quale Eloise stava realmente pensando. Era un vecchio ricordo affiorato improvvisamente dal passato, il giovane Marco, così almeno lei lo conosceva. Che ci faceva lì, e da dove era comparso. Un sorriso si fece largo sul volto di entrambi, trasformandosi ben presto in una sonora risata.
 «Che ci fai qui Marco? Pensavo fossi in giro per l’Europa ed invece ti ritrovo a Parigi, proprio alle mie spalle»
«Shhhh  - silenzio ,fece cenno il giovane spazzacamino portandosi un dito all’altezza del naso – non son Marco ma Jack adesso, qui tutti mi conoscono così e faccio lo spazzacamino in giro per i tetti della meravigliosa Paris»
«Jack ?» domandò sorpresa Eloise.
«Si, che nome daresti ad un randagio come me? Non credi che Jack sia perfetto»
«E tu invece che ci fai qui?» rispose sorridendo.
«Io alla fine ho seguito il mio istinto, fare realmente la trapezista e così adesso faccio parte del Circo de Nuages da qualche tempo, credo di aver trovato la mia strada o almeno ci sto provando, e sto diventando un po’ nomade come te, domenica Roma, oggi Parigi e dopodomani Barcelona. Ripercorro un po’ i tuoi passi».
Un nuovo incantesimo, si stava per compiere, i due funamboli iniziarono a parlare, a ritrovarsi, lasciandosi trasportare lontano, attraverso i ricordi, le esperienze e i cambiamenti avvenuti nelle loro vite.
«Dammi la mano Eloise, fidati di me»
Con un po’ di imbarazzo la trapezista allungò la mano ed afferrò la mano di Jack-Marco. In un attimo iniziarono a correre all’impazzata come due ragazzini spensierati lungo Boulevard Pasteur, Boulevard Garibaldi  e via lungo i viali di Parc Du champ de Mars fino all’apparire della sagoma della torre Eiffel difronte i loro occhi.
Si fermarono un attimo a prender fiato.
«Ti fidi di me?» domandò Jack
Eloise, annuì un po’ titubante.
«Bene, andiamo» e i due ragazzini ripartirono
Giunti sotto gli archi della Tour, il funambolo Jack consapevole delle capacità acrobatiche della dolce Eloise, la prese per mano e la fece salire di soppiatto da uno dei pilastri laterali della torre di ferro, in una scalata senza pari. Lentamente, ma con estrema naturalezza i due giovani iniziarono a salire lungo i pilastri della torre, nessuno si accorse di loro e ben presto arrivarono molto in alto.
«Siamo quasi arrivati Eloise»
«Tu sei tutto pazzo Marco» non era facile liberarsi delle vecchie abitudini, e chiamare Jack con il suo nuovo nome.
«Eccoci»
Erano appena arrivati a ridosso della terza piattaforma, ad un’altezza considerevole.
«Non sarà la cima, ma si gode ugualmente di un meravigliosa paesaggio, che te ne pare? Aspetta…»
Con un gesto della mano Jack si tolse il foulard scuro che aveva attorno al collo e lo proteggeva dalle esalazioni di carbone durante il lavoro, e lo avvolse al collo della splendida Eloise, ancor più bella ed  elegante in quella meravigliosa postura da cigno.
«Questo ti proteggerà dal freddo»
«Da qui possiamo dare libero sfogo alla nostra fantasia, ai nostri pensieri ed ai nostri sogni, siamo già abbastanza in alto per agevolare il loro volo»