sabato 3 dicembre 2011

Hemingway e le ostriche

Diciamoci la verità senza falsa modestia, non son mai stato bravo a scrivere pur essendo rimasto sempre affascinato dal mondo della scrittura e dalla sapiente arte della descrizione in generale. Fino a qualche anno fa, ad esser sinceri era il secondo anno delle medie, trovarmi di fronte ad un foglio bianco a strisce orizzontali (all’epoca i temi o compiti in classe,venivano svolti su i vecchi fogli protocollo alcuni dei quali recavano impresso in alto a destra un timbro che riproduceva il simbolo della moneta da 50 lire) e dover iniziare a macchiarlo con la fantasia delle mie parole, rappresentava un blocco, un trauma emotivo che ingenerava grande sofferenza fino a trasformarsi in vero e proprio panico. Trovo che scrivere sia qualcosa di estremamente intimo e personale, un po’ come spogliarsi difronte al partner per la prima volta. Era proprio in quei momenti che  - oltre ad una reale incapacità - venivo spesso assalito da una paura, una forma di rifiuto che imprigionava i miei pensieri e impediva loro di trasformarsi in parole. Un po’ come quando si è all’ippodromo, tutti i cavalli son pronti ed allineati dietro il cancello, scalpitano e fremono per uscire, ed ecco che al momento del via (la lettura della traccia), per tutti i Ribot allineati sulla linea di partenza, si aprono le anguste gabbie d’acciaio e via al galoppo. Al contrario, all’apertura delle gabbie il mio splendido e lucente Bucefalo rimane immobile e non ne vuol sapere di venir fuori, preferendo guardarsi attorno e brucare l’erba. Morale della favola, la corsa finisce ed il risultato è una splendido foglio bianco issato in senso di resa verso la scrittura e i suoi intricati meccanismi.  A seguito dell’ennesima umiliazione, decisi di affrontare il problema e superare quella incontrollabile fobia. Si perché, volenti o nolenti occorre lottare sempre per sconfiggere le proprie paure o almeno provarci. L’occasione fu la descrizione di un limone. Si, si proprio un limone, avete presente quel frutto giallo, tipico delle regioni del sud Italia, Calabria, Sicilia e Campania in particolare, con la buccia un po’ lucida un po’ porosa. Una descrizione che mi aprì un mondo precedentemente sconosciuto. Leggere quella apparentemente banale descrizione equivaleva ad assaporare mediante una serie di parole, i succosi ma acri spicchi di quell’agrume come se lo avessi realmente tra le labbra. Quella descrizione rimase impressa nella mente e mi fece superare l’assurda graforagorafobia (nuovo termine da inserire in wikipedia), io piccolo puntino di inchiostro nero in mezzo ad un’immensa piazza bianca da attraversare con le parole.
Pochi anni dopo, i limoni si trasformarono in succulente ostriche la cui descrizione arrivò dalla lettura di un libro, tra i meno conosciuti del premio nobel per la letteratura Ernest Hemingway, dal titolo  “Festa Mobile”. La descrizione era questa “Mentre mangiavo le ostriche col loro forte sapore di mare e il loro leggero sapore metallico che il vino ghiacciato cancellava lasciando solo il sapore di mare e il tessuto succulento, e mentre bevevo da ogni valva il liquido freddo e lo annaffiavo col frizzante sapore del vino, perdevo quel senso di vuoto e cominciavo ad essere felice e a fare progetti”. Leggendola e rileggendo questa descrizione, pur non essendo un amante delle ostriche avevo il sapore dei molluschi tra le labbra e le bollicine del vino a solleticare il palato.  Quella sublime “fotografia”, rimasta impressa nella mia memoria a distanza di qualche anno divenne protagonista in un film drammatico con Nicolas Cage e Meg Ryan “City of Angels” in cui partendo proprio dalla fase di Hemingway (proprio quella delle ostriche, guarda caso, se esiste la casualità, ma ho seri dubbi) Seth il messaggero di Dio (Andy Garcia) invita  Maggie (nei panni di Meg Ryan) a descrivere il sapore di una pera, “come Hemingway”. Ancora una volta una sublime descrizione di qualcosa di apparentemente insignificante o semplicemente impossibile - probabilmente in quanto appartenente al mondo dei sensi e come tale non suscettibile di descrizione letteraria o cinematografica - in realtà si materializza in una perfetta sinfonia di parole che si susseguono come per magia in un ritmo quasi tangibile “dolce, succosa, morbida sulla lingua, granulosa come sabbia zuccherina che si scioglie in bocca



A distanza di diversi anni, proprio in questi giorni, alcune immagini di un fotografo spagnolo contemporaneo, Chema Madoz, risvegliano le medesime riflessioni. Le opere di Madoz, rigorosamente in bianco e nero, “Il bianco e nero situa l’immagine in una forma differente” descrivono in chiave surrealista i temi attuali lasciando libero l’osservatore nell’interpretazione di ciò che esse realmente vogliono esprimere. L’arte concettuale consiste in quella straordinaria capacità di descrivere, (sempre la medesima parola che ricorre – descrizione- ) un concetto attraverso delle immagini. Un semplice bicchiere mezzo pieno e leggermente inclinato descrive il problema dell’acqua sul pianeta, 

un gong ove al posto del piatto è inserita una meravigliosa luna piena potrebbe descrivere le conseguenze di ciò che potrebbe accadere al pianeta terra a furia di rintocchi devastanti.


 Surrealismo appunto, descrizioni surrealistiche che si elevano a poesia romantica, come un dado foderato da uno spartito.


Sempre in questi giorni, infine, la sala di attesa di un ambulatorio medico ed in particolare, la lettura di un libro, prolungano questa particolare attenzione verso il mondo delle descrizioni. Il vaso di Pandora perde il suo coperchio lasciando fluttuare nei labirinti della mente umana la magia, la profondità e la poesia insite nelle descrizioni stesse. Come è possibile descrivere delle lampadine? Si si proprio banali e comunissime lampadine che ognuno di noi può osservare voltandosi in giro per casa. Chiedetelo ad un tale di nome Alessandro Baricco che nel suo ultimo lavoro “Mr. Gwyn” dedica oltre due pagine alle lampadine e alla poesia che quegli insignificanti oggetti quotidiani possono offrire:
“ (omissis….) E lì arrivava il momento delle lampadine. Il fatto è che non riusciva  a immaginarsi qualcosa che finiva bruscamente, allo scadere dell’ultima seduta, in modo burocratico ed impersonale. Era evidente che la fine di quel lavoro avrebbe dovuto avere un suo andamento elegante, perfino poetico, e possibilmente imprevedibile. Allora gli venne in mente la soluzione che aveva studiato per la luce – diciotto lampadine appese al soffitto, a distanze regolari, in bella geometria – e finì per immaginare che intorno al trentaduesimo giorno quelle lampadine iniziassero a spegnersi a una a una,  a caso, ma tutte in un lasso di tempo non inferiore a due giorni e non superiore a una settimana. Vide lo studio scivolare in un buio a chiazze, secondo uno schema aleatorio, e arrivò a fantasticare su come si sarebbero spostati, lui e il modello, per usare le ultime luci, o al contrario per rifugiarsi nel primo buio. Si vide distintamente alla luce fioca di un’ultima lampadina, dare tardivi ritocchi al ritratto. E poi accettare il buio. Al morire dell’ultimo filamento. È perfetto pensò. Per questo si ritrovò davanti al vecchietto, a Camden Town.
-          No, dovrebbero morire e basta, senza agonizzare e senza fare rumore, possibilmente.
Il vecchietto fece uno di quei gesti indecifrabili che fanno gli artigiani per vendicarsi del mondo. Poi spiegò che le lampadine non erano creature facili, risentivano di un sacco di variabili, e avevano spesso una loro forma di imprevedibile follia.
-          Di solito, aggiunse, il cliente a questo punto dice: Come le donne. Me la risparmi, per favore.
-          Come i bambini, disse Jasper Gwyn……..” .

Ed infine
(omissis……) - ci siamo dimenticati di parlare del tipo di luce, disse Jasper Gwyn quando già stava per uscirsene.
-          Come la vuole?
-          Infantile.
-          D’accordo….”.

Alla fine di tutte queste folli elucubrazioni ci si chiederà il senso di questo post, apparentemente insignificante. In realtà tutto ciò per ricordare ed esaltare la goccia di poesia che può scaturire da una descrizione, sia essa letteraria, cinematografica o semplicemente fotografica. Una bacchetta magica in mano a pochi eletti in grado di dare vita con la loro creatività ad oggetti inanimati.
In verità se proprio vogliamo essere sinceri il senso di questo post è semplicemente quello di mettere in guardia i poveri malcapitati lettori di tale post, delle conseguenze negative che una lunga attesa in un ambulatorio medico con un libro tra le mani è in grado di produrre sull’animo umano.
Musica Maestro.

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