“Vi fu un lieve sfregamento, poi il rumore secco come di legni urtati. Qualcuno stava approdando. Raccolse una bracciata di rami secchi e, senza staccare gli occhi dal varco, li tenne sopra la brace. Attese esitante. Qualcosa luccicò tra i cespugli; poi una bianca figura uscì dalle tenebre e parve nuotare verso di lui nella pallida luce lunare. Il suo cuore sobbalzò e cessò di battere, poi continuò a scuoterlo tutto, pulsando furiosamente. Lasciò cadere i rami sulla brace, ed ebbe l’impressione di gridare il nome di lei, di precipitar lesi incontro; ma in realtà, non emise alcun suono, né si spostò di un pollice; rimase muto e immobile come un bronzo cesellato, nel chiarore lunare che scivolava sulle sue spalle nude. E mentre stava così immobile, trattenendo il respiro, come reso insensibile dall’intensità della gioia, lei gli si avvicinò con passo spedito, risoluto e d’un tratto, come chi stava per lanciarsi da una grande altezza, gli gettò improvvisamente le braccia al collo. Una fiammella azzurrognola strisciò tra i rami secchi, e il crepitio del fuoco ravvivato fu il sole rumore mentre s’incontravano, nella muta emozione del ritrovarsi; poi la legna avvampò tutt’a un tratto, e un’altra fiammata balzò su sfavillante, e a quella luce si guardarono l’un l’altra negli occhi.
Nessuno dei due parlò. Lui stava ricuperando i sensi in un lieve tremore che gli corse lungo il corpo irrigidito e indugiò sulle labbra frementi. Lei rovesciò il capo e fissò gli occhi nei suoi, in uno di quei lunghi sguardi che sono l’arma più terribile della donna; uno sguardo più sconvolgente del contatto più intimo, e più pericoloso d’una pugnalata, poiché strappa l’anima dal corpo, lasciando questo impotente, in balia delle tempeste delle passioni e dei desideri; uno sguardo che avvolge tutto il corpo, che penetra nei suoi più segreti recessi, portando una terribile sconfitta nell’esaltazione della compiuta conquista. Ha lo stesso significato per l’uomo delle foreste e del mare come per l’uomo che batte i sentieri del più pericoloso deserto di case e vie cittadine. Coloro che hanno sentito nel petto la terribile esultanza che suscita un tale sguardo, diventano mere cose dell’oggi, che è il paradiso; si scordano di ieri, che fu dolore; non si curano del domani, che può essere perdizione. Vorrebbero vivere sempre in quello sguardo. È lo sguardo con cui la donna s’arrende.
Egli comprese e, come a un tratto liberato da invisibili legami, le cadde ai piedi con un grido di gioia, le abbracciò le ginocchia, immerse il capo nelle pieghe della sua gonna, mormorando sconnesse parole di gratitudine e d’amore. Mai s’era sentito tanto orgoglioso come in quel momento, ai piedi di quella donna che apparteneva in parte ai suoi nemici. Le dita di lei giocarono coi capelli di lui in una distratta carezza, mentre pensava assorta. La cosa era fatta. Sua madre aveva ragione. Era già suo schiavo. Guardando dall’alto quell’uomo genuflesso, provò una grande pietosa tenerezza per colui che era solita chiamare, anche nei suoi pensieri, il signore della vita. Alzò gli occhi e guardò con mestizia il cielo nudo, sotto il quale s’allungava il sentiero della loro esistenza, al sua e quella dell’uomo ai suoi piedi. Non glielo aveva detto egli stesso che per lui era la luce della vita? Sarebbe stata la sua luce e la sua saggezza; la sua grandezza e la sua forza; e soprattutto, nascosta a ogni occhio umano, sarebbe stata la sua sola eterna debolezza. Una vera donna! Nella sublime vanità del proprio sesso, già pensava di plasmare un dio con la creta prostrata ai suoi piedi. Un dio che gli altri avrebbero adorato. Gioì di vederlo così come era ora, di sentirlo fremere al più leggero contatto delle sue dita. E mentre i suoi occhi guardavano tristemente le stelle verso sud, un tenue sorriso parve balenarle sulle labbra immobili. Difficile dirlo nella luce incerta di un falò. Avrebbe potuto essere un sorriso di trionfo, di consapevole dominio o di pietosa tenerezza, o, forse, d’amore.
Gli parlò sottovoce, ed egli si rialzò, cingendola con un braccio nella tranquilla sicurezza del possesso; lei posò il capo sulla spalla di lui, con un senso di sfida per tutto il mondo nella capace protezione di quel braccio. Era suo, con tutte le sue doti ed i suoi difetti. La sua forza, il suo coraggio, la sua audacia, la sua semplice saggezza e la sua astuzia di selvaggio, tutto era suo. Mentre passavano dalla luce rossastra del fuoco nell’argentea luminosità della radura, egli chinò il capo sul volto di lei, ed ella scorse nei suoi occhi la sognante esaltazione della sconfinata felicità, al contatto della esile persona stretta al suo fianco. Al ritmo uguale dei loro corpi attraversarono la luce in direzione delle ombre della foresta che, immobili e solenni, sembravano fare scudo alla loro felicità. Le loro forme si confusero insieme nel gioco d’ombre e di luci, ai piedi dei grandi alberi, mentre il mormorio delle tenere parole indugiava nella radura deserta, s’affievoliva e si spegneva. Un sospiro come d’immensa tristezza passò sulla terra nell’ultimo anelito della brezza morente, e nel profondo silenzio che seguì la terra e il cielo ammutolirono a un tratto nella triste contemplazione dell’amore umano e dell’umana cecità.
Ritornarono lentamente presso il fuoco, le improvvisò un sedile con rami secchi e, gettandosi ai suoi piedi, adagiò il capo nel suo grembo, abbandonandosi alla trasognata delizia di quei brevi istanti. Le loro voci si alzavano e si abbassavano tenere o animate, parlando del loro amore, del loro avvenire. Lei, con qualche abile parola pronunciata di tanto in tanto, guidava i suoi pensieri; e lui lasciava prorompere la propria felicità in un torrente di parole dolci e appassionate, gravi o minacciose, a seconda dell’atmosfera da lei evocata. Le parlò della sua isola, dove le tetre foreste e i fiumi fangosi erano ancora da esplorare. Le parlò dei suoi campi a terrazza, del mormorio dei limpidi ruscelli che scendevano lungo le falde di grandi montagne, portando vita alla terra e gioia a chi la coltivava. Le parlò anche di una vetta solitaria: si ergeva oltre la cintura d’alberi e conosceva tutti i segreti delle nuvole transitanti, ed era dimora del misterioso spirito della sua razza, angelo custode della sua casa. Parlò di vasti orizzonti spazzati da venti impetuosi che ruggivano alti sulle vette di montagne di fuoco. Parlò dei suoi antenati che secoli prima avevano conquistato l’isola di cui sarebbe stato il futuro sovrano e poi, mentre lei, interessata, portava il viso sempre più vicino al suo, si sentì, sfiorando lievemente le folte trecce, tutto a un tratto spinto a parlarle del mare che tanto amava; e le parlò della voce incessante, che da bambino aveva ascoltata, meravigliandosi del suo significato recondito che ancora nessun esser vivente aveva penetrato; del suo sfavillio affascinante; delle sue inutili furie capricciose; della sua superficie mutevole e sempre attraente, e dei suoi abissi, eternamente eguali, gelidi e crudeli, e pieni della saggezza di tante vite distrutte. Le disse come il mare, col suo fascino, si rendeva schiavi gli uomini per tutta la vita, e poi, indifferente alla loro devozione, se li ingoiava, furioso, del loro terrore davanti a quel mistero ch’esso non rivelava mai, nemmeno a quelli che più lo amavano. Mentre parlava, il capo di Nina s’era andato chinando, e i loro visi quasi si toccavano. La chioma di lei gli era sugli occhi, l’alito sulla fronte e le braccia intorno al corpo. Non potevano essere più vicini, eppure lui intuì, più che non comprendesse, il senso delle ultime parole che, dopo un attimo d’esitazione, uscirono in un bisbiglio che si spense impercettibile in un profondo e significativo silenzio: “il mare Nina, è come un cuore di donna”.
Lei gli chiuse le labbra con un bacio improvviso, e rispose con voce ferma:
“ma per l’uomo che non conosce paura, il mare è sempre fedele, o signore della mia vita”.
La follia di Almayer
(Joseph Conrad)
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